10 dic 2007

sicilia verde irlanda: il festival, il cortile dei marchesi, sannelli

Si è concluso ieri con la lezione di Andrea Cortellessa e le letture incrociate di Sara Ventroni e Aldo Nove il festival "Tutto il resto è poesia" che ha avuto luogo dal 2 al 9 dicembre nella splendida cornice barocca del palazzo municipale di Caltagirone, il posto con più chiese, ceramica, e scale al mondo. La Las Vegas dei presepi, con persone che per un euro e cinquanta ti invitano ad entrare in botteghe dove espongono rappresentazioni di ogni tipo, giganti e mignon; presepi in cotone, viventi, meccanici, in ferro, tradzionali, coi pupi, in terracotta, in ceramica. S. Maria del Monte domina dall'alto la celebre scalinata che, salendo, non concede di trovare cadenza e passo. Turi Volanti e Ballarò espongono in permanente al museo di Arte Contemporanea e nei caruggi (li chiamano come a Genova) può capitare d'incontrare nel saliscendi punti invece di strutturato livellamento, pianura, interni, architetture che nella loro sostanza arrivano a comunicare epifanie improvvise, chiarimenti di senso che si esperiscono solo intravedendo l'anima dei luoghi. Un anima che non appartiene al qui e ora del posto, ma istituisce un'analogia profonda, un incontro. A me è capitato nel cortile dei marchesi di Santa Barbara, ammirando l'asimettria delle aperture circolari del palazzo in rapporto all'altezza del palazzo e alla diagonale del cortile. Era come un Piranesi caduto nel pozzo... un acquario d'ombra, e io dentro. Sono grato al festival organizzato dall'intaprendente Josephine Pace, sotto la tutela ideale di Maria Attanasio, per avermi dato la possibilità di saggiare l'epifania del cortile dei marchesi di santa barbara e nel contempo conoscere l'opera meritoria di alcuni piccoli editori, che con il loro lavoro offrono la vera alternitava al mercato generalista. La Gepas di Orazio Parisi, di Avola, ad esempio, o le milanesi edizioni Il Faggio di Franco Ambrosio, o la Rosa rossa/il raggio verde di Vitaldo Conte e infine la Altavoz di Caltagirone (che propone tra gli altri titoli il poeta algerino Habib Tengour, ben tradotto da Manuela Cardinel). Ho avuto modo di parlare un poco del rapporto tra editoria e poesia, dicendo che tale rapporto è serenamente allo stremo, ma che non è quello l'importante. La mia personale idea di un'era che spesso definisco affetta dalla "sindrome Fausto Zafferoni", mi pare trovi conferma in chi da anni lavora incessantemente per un risultato. A proposito, a scoraggiore nuovi poeti, o, se abbastanza decisi, a fecondarli, indico spesso il nome e l'esperienza di Massimo Sannelli che considero il poeta insieme più attivo e consapevole della sua generazione, di intensità sempre sconcertante. Consiglio di leggere attentamente quanto scrive e anche tutto il suo sito; considerare che mancano le pubblicazioni accademiche, poi leggere ancora che "occore perdere anche il proprio nome" e guardarsi dentro. Paragonare il probabile vetrino, la coltivazione di microbi che avete (abbiamo) in serbo nel freezer e chiedere perché la vostra (nostra) esile biologia virale dovrebbe infettare un mondo impermeabile, mentre un mondo già all'età del ferro, ruota da quindici anni mutando pelle, squassandosi in eruzioni, tremando emozione che vibra.

7 dic 2007

lo scrittore e la traiettoria unica

La grandezza della scrittura ha un rapporto con la grandezza della storia che ci consegna. Così, Camon, perentorio, a spiegare che i tempi del minimalismo sono molto lontani. E spiega: «Nell’opera e nella vita di Giuseppe Pontiggia (1934-2003) c’erano dieci-quindici storie: guerra, dopoguerra, penuria, boom, comunismo, consumismo, fine del comunismo, impero americano, crisi dell’impero americano, terrorismo interno, terrorismo internazionale, avvisaglie dell’Islam. Oggi invece si ragiona di storie, di trame, di plot, di fiction, sull’importanza della narrazione di per sé, del raccontare storie. Invece, dice Camon, “La situazione oggi è tale che non si può non ascoltare-guardare la storia: come nel felliniano Prova d’orchestra, la grande palla demolitrice ha battuto sul muro portante del nostro edificio sfondandolo, non possiamo non guardare il buco, la minaccia. È in ballo non solo il senso di quello che scriviamo, ma anche il senso di quello che siamo”.
Ma la storia è quella delle cinque giornate di Milano, gli ultimi trenta anni del secolo scorso, su cui c’è più presa? «“La situazione oggi è tale che non si può non ascoltare-guardare la storia”. Siamo in crisi d’identità. Perciò abbiamo, vattimianamente, una “scrittura debole”». Allora ci si domanda, perché esistono opere e scrittori importanti, destinati a discussione, e a memoria? A proposito Ferdinando Camon è molto chiaro: «Non è solo questione di riuscita estetica delle loro opere, ma anche di stabilità della storia dentro la quale vivono e scrivono: questo appare più chiaro se andiamo a ripescare autori che non ci sono più, Moravia (1907-1990) [ma anche Piovene (1907-1974) e Bilenchi (1909-1909) Pavese (1908-1950)] Pratolini (1913-1991), Tobino (1910-1991), Bassani (1916-2000), Volponi (1924-1994), Parise (1929-1986): vivevano e descrivevano un’esperienza coerente, le loro opere formano un blocco. Tra gli ultimi grandi autori dotati di questa coerenza e questa grandezza unitaria, ci sono Primo Levi, Rigoni Stern, Fenoglio. Il loro essere-per-sempre ha un prezzo: non erano visti quando si faceva il punto su un momento della letteratura, un quinquennio o un decennio. Non ricordo un solo convegno letterario a cui sia stato invitato Levi o Rigoni o Tobino o Fo. La Storia della letteratura italiana più diffusa nelle nostre scuole, per tutta la seconda metà del secolo scorso, quella di Natalino Sapegno, per ben 43 edizioni non dedicava una riga a Primo Levi. Non lo vedeva proprio. Non sapeva che esistesse. Sapegno rimediò alla lacuna inserendo Levi con la formula: «È forse il più grande scrittore italiano del secolo». Ma se era il più grande, come faceva a ignorarlo per mezzo secolo?Lo scrittore e l’opera destinata a durate si pone di traverso rispetto alla storia, si confronta con la storia in una dialettica più ampia, scopre valori e li confronta. Lo scrittore di romanzi secondo Camon vive una “crisi di identità” e deve invece avere ben chiaro almeno un elemento: «Sappiamo soltanto una cosa: che dobbiamo capire chi sono [gli scrittori] e fargli capire chi siamo». Il gioco a nascondere del postmoderno è finito ma ci ritroviamo nel dominio del curriculum, nella posizione e condizione post-coloniale che ho tentato di azzardare parlando di Saviano o della Bahatt: “la novità può venire da tutte le parti dell’orizzonte, Islam, Stati Uniti, Cina, Terzo Mondo, Quarto, Est europeo, Patagonia, Africa… Più una biografia è sbalestrata, più è autorevole. Il Nobel di quest’anno vive a Londra, ma ha lavorato nello Zimbabwe ed è nato in Persia, attuale Iran: se gli togliete la Persia, gli togliete il Nobel”. Doris Lessing effettivamente ha questo problema. Ricordate cosa si diceva a proposito dell’abbaglio dei cinque cubiti? Solo che adesso, dopo aver avuto bisogno di premiare gli autori dell’alterità, promuoviamo chi con tale alterità aveva convissuto da tempi “non sospetti”. Ancora una volta il premio come istituzione spiega gli artifici e l’esistenza del canone, il suo senso profondo, il suo essere un termometro, giusto o sbagliato, del clima culturale di un periodo, un’istantanea del clima. Chissà come sono rimasti, nella foto, Mariolina e la sua Squadra? E il termometro, dove ce lo nascondiamo?

30 nov 2007

Il belgio, Borghezio e la pietra filosofale.

Non so perché negli spogliatoi della piscina, con l’avvocato si finì a parlare di Borghezio e della faccenda dei treni disinfettati dagli extracomunitari. Il giorno dopo ritrovo il grand’uomo della lega sul volo per Bruxelles e lo scrivo all’avvocato. “Peccato non avere il disinfettante”. E lui: “fai le puzze”. Dopo due giorni di convegno ad Anversa e mezza giornata a Lovanio, in aeroporto al check in, ancora Borghezio. Questa volta ho finito i soldi sul cellulare, allora con due colleghe del convegno anche loro ritorno sullo stesso volo, vado al Pizza Hut, in allegria. Una birra, sigaretta fuori e poi all’improvviso barcollo, rientro nell’aeroporto, guadagno una sedia, dolori lancinanti al fianco sinistro, impallidisco, sudo, le mani formicolano, vista scura, ballo l'occhio. Le colleghe chiamano un medico e mi portano ombrello e i bagagli al Meda Luchthavendokters del Bruxelles Airport, dove mi diagnosticano un attacco acuto di calcoli. Niente di epico ma quelli volevano tenermi e io avevo alcuna intenzione di essere ricoverato, tanto meno lì. Il Dr House sconsiglia: “il reviendra”. Ma è possibile firmare e fuggire mostrando il biglietto aereo per ricevere indicazioni su dove andare: “floor three, left, gate sixty-eight. Forty-five euros, please”. Pago, vado, sbaglio e imbocco per i voli extraeuropei superando senza sospetti una coda di africani e cinesi in coda con spiegazioni goffe e un milione di “sorry”. Torno indietro verso un’enorme “EU” circondata da stelline su fondo blu e imbocco la corsia giusta. Qui la cosa è più rapida ma devo ancora passare i metal detector e i raggi x per i bagagli a mano, più una serie interminabile di scale mobili. Quando credo di essere allo stremo un cartello minaccia “Gate 60-70 time expected 10-15 min.” e una sfilza di tapis roulant si srotola in uno spazio enorme, una distesa deserta, che scorre in automatico, come in un disegno di Buzzati. Io e la mia carta d’identità scaduta da un giorno vediamo sfilare i grandi numeri, sudando, verso il 68. All’imbarco, dietro una scrivania posticcia blu elettrico un ragazzo sorride complice come fossi uno che acciuffa per la rotta di collo il volo di ritorno che tiene su la tresca con l’amante e dice il mio nome, quasi fossi atteso per cena: “Mr. A.a. I guess…” “Of course”, ansimo, “di corsa”. A bordo ritrovo Giulia e Francesca, le colleghe che pietosamente mi avevano dato una mano e mi accomodo raccontando della faccenda. La mia situazione, palese tra le ultime file del volo che seguono la storia dell’avventura ospedaliera del ritardatario, desta anche l’attenzione del mio vicino, cordiale, ben piantato, segnato da un taglio fresco che dalla fronte si sposta per tratti irregolari lungo la dorsale del naso, a croste irregolari. È cordiale, del sud, molto scuro. Parliamo di gusto. Con il mio accento piemontese faccio qualche battuta sulla Lega, lui ride. Poi mi racconta che si è fatto male riparando il muso di un muletto. La sua ditta ha sede a Torino e affitta macchinari in tutta Europa. Quando si guastano a lui tocca partire ed andare a metterli a posto. Ha sentito che non ho voluto ricoverarmi e mi dice che anche lui ha rifiutato i punti. “Tanto va a posto”. Poi mi mostra anche la cicatrice di una scheggia di metallo in una mano che però aveva dovuto togliere perché era quasi arrivata al tendine. Uno dei tanti segni del lavoro che si fa. L’iniezione di Toradol, i 40 mg di piroxicam e il mio anonimo e cordiale interlocutore garantirono un buon volo. Entrambi in viaggio di lavoro, entrambi abbastanza soddisfatti nonostante l’infortunio, dormiamo. Nobilitato dal raffronto penso con autoindulgenza a quanto è forte il senso di colpa dei poveri intellettuali che hanno scelto di non fare la voce grossa, di rimanere uguali a tutti. Lui mi dice di non preoccuparmi per i calcoli: al cognato camionista dopo un paio di attacchi glieli hanno tolti e adesso sta benissimo. Problemi legati al lavoro, autotrasportatore o aspirante saggista è lo stesso. Così mentre m'assopisco ripenso al cammello azzurro che si affaccia sulla piazza della stazione di Anversa a presidio di uno zoo di inizio secolo, ad “Antwerpen” la poesia di Ford che Eliot generosamente considerava tra le migliori in assoluto sulla prima guerra mondiale («For there is no new thing under the sun, / Only this uncomely man with a smoking gun»); al convegno di Genova e a quello appena passato grazie a cui ero su quel volo, a Sigfried Sassoon imitato da Levi e a quella generazione parallela che cercando una cultura comune e si trovò a combattere su fronti opposti due volte nel giro di nemmeno quarant’anni. Mentre mi assopisco torna anche Montaigne e il suo viaggio in Italia in cerca di terme e il capitolo Dell’Esperienza che chiude il terzo e ultimo volume dei Saggi :

"Mais est-il rien doux, au prix de cette soudaine mutation; quand d'une douleur extreme, je viens par le vuidange de ma pierre, à recouvrer, comme d'un esclair, la belle lumiere de la santé: si libre, et si pleine: comme il advient en noz soudaines et plus aspres coliques? Y a il rien en cette douleur soufferte, qu'on puisse contrepoiser au plaisir d'un si prompt amendement? De combien la santé me semble plus belle apres la maladie, si voisine et si contigue, que je les puis recognoistre en presence l'une de l'autre, en leur plus hault appareil: où elles se mettent à l'envy, comme pour se faire teste et contrecarre!" (ed. it. Adelphi, p. 1464)

La filosofia dell’esperienza di un sedentario viaggiatore che cercò il confronto e la differenza a dispetto di tanti piagnistei. Dentro, un sorriso di gratitudine per quel misterioso piccolo mondo sospeso a novemila metri, Borghezio incluso: «Pour m’estre dés mon enfance, dressé à mirer ma vie dans celle d’autruy…» (p. 1439).

9 nov 2007

neo settantasette

Dopo il Settanta di Belpoliti torno sull’argomento riportando (da «Sagarana» n. 28) un pezzo di Lucia Annunziata dal suo nuovo libro 1977 - L'ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino, 2007 . Perché abbia interessato di più il trentennale del 1977 che il ’67 non è facile dirlo; forse perché il movimento del 1977 è un fenomeno nazionale rispetto all’internazionale 1968, come ricorda Marco Grispigni in 1977 (manifestolibri, 2° edizione 2007), e poi perché si pone in modo radicalmente differente rispetto al ’68: l’imperativo è “soddisfare i bisogni” e lasciare che il confine tra necessario e contingente sfumasse nell’ironico, nel contraddittorio, nello sfottò. La società della comunicazione che domina il decennio successivo è nata lì, i suoi valori non sono poi così lontani; l’intransigente suffisso post- caratteristico dei Settanta si volge in pochissimi anni nell’algido Neo-: un'epoca apparentemente molto distante, è in realtà contigua. L’ossessione per l’io era dietro l’angolo, appena lasciato il corteo...
Ritrovo sui giornali il nome di Gustave Le Bon, uno dei filosofi preferiti di Mussolini. La sua Psicologia delle folle ha ancora il “tiro narrativo” di un best sellers alla Rifkin; stupisce però che potesse avere tanta ragione negli anni Venti e tanto torto una cinquantina di anni dopo. Negli anni Settanta l’idea di folla è cambiata radicalmente: ha scoperto il principio di “collettività” e insieme quello di “individuazione”; le persone si sono guardate in volto invece di rivolgersi ad un palco. Ed è stato quello che è stato; le basi del postmoderno saldamente poste, iniziava il dominio del media, della visibilità, dell’affermazione presente. Ancora negli anni Cinquanta per un’artista morire sconosciuto, incompreso dalla sua epoca, era una prospettiva plausibile o almeno possibile: un valore non riconosciuto nel presente poteva attendere futuro. Oggi quest’attesa di futuro è del tutto azzerata. Avendo trionfato il pop, anche a noi toccherà di essere scoperti e consumati in quindici minuti di fama.

Da Lucia Annunziata, 1977 - L'ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino, 2007

(...) Il movimento del '77 nasce con un'acuta consapevolezza dei media. O meglio, nasce all'interno dei media e con i media al suo interno.
La rivoluzione piú potente di quell'anno - e quella che per molti versi avrebbe avuto effetti piú lunghi - è proprio la scoperta e invenzione della mediaticità. La destrutturazione del linguaggio della comunicazione è anch'essa comunicazione.
La produzione intellettuale di quell'anno è monumentale, non solo per quantità ma per la continua sollecitazione che innesca. Delle radio e dell'uso dei quotidiani abbiamo detto. Va aggiunta la sperimentazione: la piú interessante e proficua è quella che nasce dalla rivista "Attraverso" fondata da un collettivo di cui facevano parte Franco Berardi (Bifo), Stefano Saviotti, Maurizio Torrealta e che si rifà ad Antonin Artaud e alla sua teoria del linguaggio corporale, alla separazione dell'arte nella vita del processo rivoluzionario, dell'intelligenza tecnico-scientifica. La rivista è un modello per molte altre che ne riprodurranno il linguaggio, e di cui la barra separativa è ancora oggi il simbolo. C'è poi "Zut", rivista dada-situazionista romana, curata da Angelo Pasquini, che usava parodia e paradosso come destrutturazione: il gruppo di "Zut" crea il Cdna (Centro diffusione notizie arbitrarie), incaricato di diffondere notizie inventate di sana pianta capaci talvolta di produrre eventi veri.
Nello stesso filone ci sono poi " Oask ? ! " degli indiani metropolitani, la napoletana "Wam" e la romana "Abat/Jour". I Circoli del Proletariato giovanile avevano invece "Viola", nata nel 1976, rivista dura della rabbia giovanile underground. Nel marzo 1977 le si affianca "WoW" di Dario Fiori, presentata come "il foglio dei circoli proletari giovanili in decomposizione", e si reclamò "WoW totoista" in critica al maoismo ancora imperante in molte altre esperienze, inclusa "A/tra-
verso". L'elenco è sterminato: ogni gruppo tendeva a fare comunicazione in proprio, per delimitare strettamente la propria area.
Lo stesso atteggiamento privatistico si ritrova nei consumi culturali: una ricerca di separatezza assoluta dai sentieri della cultura maggioritaria, anche di quella ribelle nata nel '68. Il movimento fa suoi alcuni "testi" classici della controcultura, come quelli della protesta pacifista e radicale americana, da Bob Dylan ai Fugs, i Jefferson Airplane, Country Joe, Frank Zappa, Joni Mitchell e il supergruppo Crosby, Stills, Nash e Young; ama i cantautori in rotta di avvicinamento all'impegno politico, come Francesco Guccini (fin dai primi testi scritti per i Nomadi) o Fabrizio De André e ancora Francesco De Gregori o per altri versi Edoardo Bennato. Ma canta soprattutto la canzone militante, di lotta, intrecciata strettamente alla canzone popolare - anche di sapore internazionalista, basti ricordare gli Inti Illimani.
Il repertorio basico è costituito dagli autori classici già colonna sonora degli anni sessanta: Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli. "E chi può affermare che un sampietrino non fa arte?", scriveva Ivan Della Mea. "Può servire De Gregori? Non ho dubbi: che cominci però anche lui a prendere le pietre, a guardare come sono fatte e a lanciarle. Irrobustisce il bicipite e l'accordo di chitarra si strappa piú duro". A metà degli anni settanta e quindi nel pieno del '77 questi autori saranno raggiunti da altri, come Claudio Lolli (Ho visto anche degli zingari felici) o il duo Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi. Nessuno piú di Manfredi e Gianco saprà dare voce allo spirito del '77 con canzoni-manifesto come Zombie di tutto il mondo o Dagli Appennini alle bande (una sorta di mistica del clandestinismo), Ultimo mohicano ("...sampietrino in mano", proseguiva la canzone), Non si paga (un inno alle autoriduzioni nei cinema e ai concerti), Avanguardo (satira del perfetto militante di Pdup e Ao).
Nelle canzoni di Manfredi c'è la sintesi perfetta del '77: amore, violenza, sogno, allucinazione e una satira autoironica feroce, come nella canzone Compagno si, compagno no, compagno un cazzo. Oppure in Ma chi ha detto che non c'è: "Sta nel fondo dei tuoi occhi, sulla punta delle labbra, sta nel mitra lucidato, nella fine dello Stato, nella gioia e nella rabbia, nel distruggere la gabbia, nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro, nella fabbrica deserta, nella casa senza porta..."
Al cinema si guarda ancora Fragole e sangue di Stuart Hagman, realizzato nel 1969, vero film culto sul '68 a Berkeley. Ma a Roma è il tempo della fioritura dei cineclub, il Filmstudio, il Politecnico e l'Officina. Cinema d'autore e carbonaro, insomma. Nell'agosto 1977 il vulcanico Renato Nicolini dà vita alla rassegna cinematografica dell'Estate romana, nella Basilica di Massenzio, e realizza con successo un'operazione di ricucitura culturale tra generi: tra il cinema alto dei classici di Hollywood e del cinema italiano e quello degli horror di serie B, delle commedie scollacciate, dei polizieschi, dei peplum, degli spaghetti western.
Fra i libri spopola, accanto agli amatissimi Roland Barthes e Jürgen Habermas, ogni sorta di testo e libello dell'editore Savelli: da Porci con le ali al celebre In caso di golpe. Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo, di guerriglia e di controguerriglia, con prefazione del compagno Vincenzo Calò. Sottotitolo: Quello che i golpisti sanno già e che ogni democratico dovrebbe sapere.
Il movimento insomma è impegnato soprattutto a raccontare se stesso, per se stesso. Questa passione per la "fotogenia" di sé non è narcisismo, ma un atto rivoluzionario, anzi la rivoluzione in sé. Cos'altro sono infatti tutte queste invenzioni e sperimentazioni linguistiche, le esibizioni della violenza, se non l'anticipazione di "altro" attraverso la distruzione del presente per mezzo del linguaggio che lo rende reale? In quegli anni, scrive Aldo Bonomi, "molti compagni sono arrivati alla convinzione che occuparsi di comunicazione contenesse già un progetto. Significava comunicare un immaginario, fare propaganda all'interno dei processi di trasformazione in atto".
Ecco una differenza enorme con il '68, che si era anch'esso molto piaciuto, ma che non si era mai guardato: preferiva farsi guardare. Voleva essere "capito" e "ammirato", non per com'era, tuttavia, ma per quello che faceva. Il '68 aveva la missione di cambiare il mondo ed era dunque impegnato a infiltrarsi nei media per cambiarli (in questo senso non è un caso che quell'anno abbia prodotto una massa enorme di giornalisti). Il '77, che non crede nelle istituzioni e dunque nel cambiamento, è invece impegnato soprattutto a raccontarsi, come atto di affermazione di indipendenza dalle convenzioni di cui le istituzioni rappresentano l'organizzazione finale.
Un movimento che si specchia e si autorappresenta: che nessuno dunque può davvero raccontare, tanto meno capire.
In questa identità c'è il seme della follia: quello che gli altri, cioè la stampa, dicono del movimento diventa la comparazione fra quello che si vede di sé nel proprio specchio e quello che vedono gli esterni. Il '77 compra ossessivamente i giornali per leggere delle proprie manifestazioni, guarda la Tv per vedersi sfilare, ma ogni volta è una delusione, una deformazione: dalla mediazione del giornalista, persino di quelli molto vicini, rimane sempre deluso. Lo specchio dei media, per il movimento, è sempre deformante. I giornalisti infatti danno giudizi, scelgono, scrivono, riorganizzano la realtà. Il movimento vuole invece una rappresentazione continua e diretta: non a caso l'unica forma di narrazione giornalistica in cui si riconosce e che accetta è la rubrica delle lettere di "Lotta continua", cioè una sorta di flusso di autocoscienza ininterrotto, senza che nessuno ci metta le mani. E, a ben vedere, un desiderio che anticipa Internet e i blog - un po' come l'altro strumento popolare di allora, la radio.
Del resto, potrebbe essere altrimenti? I giornali sono istituzioni, e quale istituzione potrebbe comprendere il movimento? I giornalisti dunque randellano (come "L'Unità"), aizzano (come il "Corriere"), denunciano (come il "Giornale Nuovo") e, soprattutto, spiano.

8 nov 2007

Il “signor rosmarino”. (Moresco saggista III)

Alle missive che compongono le Lettere Nessuno se ne potrebbe aggiungere una, forse la più radicale scritta, indirizzata a Papa Benedetto XVI.

"Caro Benedetto XVI, scusi il modo diretto con cui mi rivolgo a lei, senza i soliti appellativi che si usano in questi casi. Non è per mancanza di rispetto ma per un bisogno di verità e confidenza con la sua persona prima ancora che con la sua figura istituzionale. Lei di certo non mi conosce. Perciò mi presento. Io non sono né un ateo devoto né un devoto ateo. Sono solo uno scrittore che in un suo libro ha immaginato un papa che, appena eletto, dopo duemila anni, scioglie la Chiesa".

Questo è il “gesto estremo” che Moresco chiede a Benedetto. Lasciare che la Chiesa conosca la sua morte, per poter risorgere veramente. Questa è la prova. Questa è l’oltranza, questa la fede richiesta da Moresco. Fin troppo facile deridere quest’idea associandola a quella dei santoni che ti fanno crepare dicendoti che ti risveglierai su un pianeta riscaldato da Proxima centauri. Fin troppo facile far finta di non comprendere la portata simbolica “immanente” di tale proposta. Penso alle argomentazioni facilmente confutabili di Oddifreddi e alle più sottili argomentazioni di Ferraris sulla “reale presenza” e altre aporie della fede come consumo. Dietro o sotto questo secondo discorso, apparentemente formale, ci sta il vero problema di un cadavere trafugato o assunto, carne e ossa, nell’invisibile. Bene se non ci crediamo più, alla lettera, bisogna dirlo. La vita eterna non è la resurrezione e se si vuole davvero risorgere, testimoniare che la resurrezione è data bisogna avere il coraggio non di praticare un suicidio, ma di accettare, la morte. Un disperato gesto di fede: «Se anche la Chiesa si vuole salvare, si perderà nei tempi che ci aspettano». (sul concetto di accettazione vedi quanto detto nella parte II)

"Mi rendo conto di quanto sia ingenuo e abnorme quello che le sto chiedendo. E so bene che mi si potrà rispondere: nessun uomo può sciogliere la Chiesa, perché è stata istituita dal Figlio di Dio. Ma c'è bisogno di liberare tutta la spiazzante potenza resurrettiva del cristianesimo. Bisogna che si liberi dall'interno del suo vuoto una potenza nuova ancora sconosciuta, proporzionale a quanto ci sta succedendo. Che si liberi la potenza creativa e resurrettiva dell'umanità femminile che è imprigionata anche al suo interno. Che la Chiesa non rimanga bloccata in una sterile guerra di posizione tra le altre potenze secolari imperiali. […] La salvezza non ci può venire solo dalla politica, dall'economia e dalla tecnica. La sfida è estrema. Bisogna liberare una enorme forza latente che -forse- è imprigionata da qualche parte. Bisogna pensare l'impensato perché l'impensato è esattamente ciò che ci sta succedendo. L'idea più estremistica e grande del cristianesimo è quella della resurrezione. C'è bisogno di questo estremismo in questo passaggio di specie su questo pianeta sovrappopolato e stremato. Servirebbe un gesto estremo, impensabile, irradiante, compiuto da chi avrebbe la potenza esemplare per farlo".

L’idea heidegerriana “di procedere verso l’impensato che bisogna pensare”, ripetuta alla nausea dai tanti alfieri della reazione (che pensano e scrivono continuamente il già pensato e già detto) qui si carica di una luce “immanente” sconosciuta ai tanti che di questa celebre frase si sono impossessati. La portata vertiginosa delle parole di Moresco però eccede ulteriormente questo piano che ancora in qualche modo potrebbe definirsi critico e storico quando sfocia nell’idea del sogno come creazione. Creazione di una forma antropomorfa consustanziale al senso antropologico e umano della profezia come “incarnato” “in figura” ancor prima che “in narrazione”. Infatti anche la forma della lettera sparisce, sparisce l’interlocutore, sparisce l’emittente. Resta la visione.

"Ecco, io vorrei arrivare con i miei sogni fino ai sogni del Papa, entrare nel regno dove i sogni del Papa si uniscono al resto della massa elettrica e spirituale di tutti i sogni sognati. Forse, di tanto in tanto, bisbiglia qualcosa nel sonno, anche se nessuno la sente. O forse qualcuno sì, chi può dire… Forse, quando è tutto buio e silenzio nelle sue stanze, un signore alto si avvicina al suo letto, si siede sulla poltroncina lì a fianco. La guarda dormire, in silenzio, assorto. Ascolta le parole che le sfuggono dalle labbra mentre sogna. Chi sarà mai questo signore? Come si chiamerà? Ma sì, diamogli un nome, un nome dolce, gentile, chiamiamolo il signor Rosmarino, perché lascia dietro di sé un leggero profumo di rosmarino. È quello che avverte anche lei la mattina quando si sveglia, e magari lo scambia per qualche profumo liturgico emanato dai suoi abiti durante la notte. Il signor Rosmarino la guarda in silenzio, nella penombra, ascolta le sue parole sussurrate a fior di labbra nel sonno. Poi, alle prime luci dell'alba, così come era arrivato, senza che nessuno lo veda, si allontana".

Dire con la voce la visione, una figura del sogno che nulla, assolutamente nulla condivide con il surreale, è un progetto destinato a debordare i confini di ciò che si può intendere come “lettera aperta a” o “discorso critico a partire da…”: è un’idea e una pratica di creazione destinata a resistere al di là delle proponibilità o della reale possibilità che propone. Nel contemplare questo inesausto “fiorire” di figure emblematiche si prova lo stesso senso di spiazzamento profondo e imbarazzante che si può provare di fronte ad alcune lettere di Giordano Bruno o di Tommaso Campanella; quelle lettere che partono con un fine politico e critico ma sfondano in tutt’altro, in un invenzione unica, allegorica, illustrata, inusitata, di nuova potenza (invenzione poi tradita e perversa del mistero e dell’iniziazione di una tradizione risorgimentale e massonica, settaria). Moresco ripete di continuo la necessità di fronteggiare questa mutazione radicale, questo salto di specie in arrivo e insieme già arrivato; non a caso Bruno e Campanella attraversavano una sconvolgente mutazione epistemologica, e con le loro opere abnormi furono i testimoni, prima di Galileo, di tale profondo sconvolgimento. L’apparentemente umile, laico buon senso sperimentale dello scienziato appoggia sui furori dissennati e sulla dissimulata pazzia di uomini visionari, incapaci di prudenza, di pazzi che profetizzavano mutazioni poi occorse ma allora ragionevolmente imprevedibili; che mischiavano astrologia e magia con scienza naturale, fandonie e verità sensibili. Visoni aurorali, scomposte, partorite da carni abituate al supplizio, in condizioni impossibili. Concludendo, la prospettiva di una liberazione come pensiero e discorso in Moresco mi pare annullata dall’incarnazione. Da un signor Rosmarino qualsiasi, arbitrario, potentissimo e disarmato, che si prende tutto sulle spalle, come un re africano che pedala su una bicicletta da camera per tenere il mondo nella sua orbita: impensabile. Irragionevole come la volontà di un ciabattino calabrese che, dal fondo di una prigione, pretenda di comprendere e riformare il suo mondo, di parlare a papi e imperatore. Un tizio come Campanella che studiava la visione attraverso le anatomie dei bulbi, che fu capace di comprendere che la febbre non era una malattia ma la reazione fisiologica ad un male, che seppe illustrare l’eugenetica e i nessi ecologici tra piante, animali e ambiente; che profetizzò di vascelli capaci di navigare senza vento né remi, di telepatia, di apparati acustici capaci di captare suoni dagli spazi siderali. Un pazzo che fu un poeta straordinario, la cui oltranza riverbera nel Novecento con risultati tra loro molto diversi: la mistica di Rebora frammento lirico 68 (cfr. il sonetto Della Plebe di Campanella), la militanza di Leonetti ("La voce è quella di Campanella e / dei vociani con militanza moderna, / addolcita dei suoni di Bologna", La voce del Corvo) o l’Invenzione di Moresco di cui ho presentato un esempio.

2 nov 2007

Provincia morta. Un poeta di Albisola

Per quanto mi è dato sapere transita impercettibile nel silenzio quasi assoluto il quarantennale dalla morte di un poeta dimenticato. Angelo Barile, nato ad Albisola Marina nel 1888 e ivi morto nel 1967. Vicino in gioventù alla prima Democrazia Cristiana di Murri, dedicò attenzione ai problemi religiosi (negli anni universitari, importante l’amicizia con il barnabita G. Semeria, portavoce del modernismo). Dopo la laurea in giurisprudenza a Genova frequenta corsi di lettere all’Università di Torino. Partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria e tornato dal fronte non si allontanò più da Albisola, attendendo per molti anni alla sua azienda di terraglie. Durante il fascismo era vissuto appartato, ma avverso al regime: venne arrestato dai tedeschi nel ’43 e solo per un caso scampa alla fucilazione. Poeta dalla gioventù decise di pubblicare molto tardi su varie riviste tra cui «Solaria », «Circoli», «Maestrale», «Il Frontespizio». All’impegno politico Barile tornò solo nel secondo dopoguerra, svolgendo un’intensa attività pubblica come amministratore comunale e provinciale. Due anni prima della morte nel 1965 Vanni Scheiwiller decise di pubblicare il libro che conteneva le sue Poesie (1930-1963) (1965) che raccoglie le ormai introvabili raccolte precedenti Primasera (1933) e Quasi sereno (1957) e cui si aggiunge la sezione A sole breve che raccoglie le liriche degli ultimi anni.
Quest’autore mi piace non solo perché conosco e frequento i luoghi in cui e di cui scrisse, ma per il suo aver saputo essere infinitamente meno vistoso del suo concittadino Tullio Mazzotti (1899-1971) e per non avere avuto, in fondo, nemmeno la vanità di creare un livre. Barile negli anni Trenta come gran parte dei poeti della sua generazione ha letto Blake e ha avvertito

«la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore... non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell'intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Poche - se pure - anche a quelli che sono i più bravi. Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze. Facevo mie le parole, non più dimenticate, di Boine: “Bisogna lasciar correre l’acqua, sporcar meno carte, aspettare. Lascia, lascia sbollire, butta via! che le cose importanti son poche e le cose belle rade... non si è padroni che delle cose inutili e le essenziali si fanno da sé, ci violentano».

Quest’idea dell’opera essenziale che si fa da sé, o quasi a scapito dell’autore, “violentandolo”, viene direttamente dalla prefazione a Quasi sereno e mi pare molto importante. Coerente con queste intenzioni Barile costruisce i propri strumenti sintattici e verbali con lo scrupolo quasi didattico che Pasolini indicò in un “ostinata tensione” esercitata sulla lingua per realizzare «il miracolo della fusione... tra sensibilità soggettiva e presenza oggettiva del divino». Tuttavia etichettò Barile come esempio di un «cattolicesimo disperato ed estetizzante» emarginandolo in una zona periferica, tra il pascoliano-crepuscolare e l’ermetico, cui lo avrebbero condannato virtuosismo e indifferenza ai contenuti della storia, messa tra parentesi dalla sua esclusiva tensione alla «purezza». In realtà forse Pasolini non comprese che Barile demandava l’«enorme antefatto della storia» all’«idea di eterno » (come scrive Carlo Bo): un’idea, o piuttosto, un sentimento che egli verificava nello sbriciolarsi del quotidiano entro un’unica cornice privilegiata: la «piccola patria» ligure di Albisola Marina dalla quale non si staccò per l’intera esistenza; e anche per questo volontario isolamento egli poté apparire defilato dalla temperie culturale del ’9oo. In realtà Barile fu del proprio tempo testimone e protagonista (si pensi anche solo a «Circoli», la rivista da lui fondata assieme a Adriano Grande e sovvenzionata da Guglielmo Bianchi; vedi anche F. Contorbia, Lucia Rodocanachi. Le carte la vita, Società Editrice Fiorentina, 2006), ma lo fu nella misura discreta e congeniale alla finezza di sentimenti che lo portò a diventare punto di riferimento e di magistero per molti poeti. «Giudice segreto», lo ha definito sempre Bo in occasione della sua morte e, in effetti, tutto ciò che si faceva a Roma o a Firenze fra le due guerre aveva un’eco immediata nel «piccolo laboratorio» della sua casa. Inutile forse ricordare l’amicizia con il coetaneo Sbarbaro, nata sui banchi del liceo e durata una vita, e il fatto che Montale lo eleggesse a primo giudice dei “rottami” che avrebbero poi costituito il primitivo nucleo degli Ossi di seppia; meno noto forse il legame con Adriano Sansa (Pola 1940) cui scrisse la prefazione a Vigilia (Sabatelli Editore); sindaco di Genova dal 1993 al 1997 condirettore della rivista «Resine» - e autore di Affetti e indignazione (Scheiwiller) e Il dono dell’inquietudine (Il nuovo Melangolo).

Primasera

Accompagnarmi sottobraccio al primo
che passa!
Foresto: a me lo simulo fratello.

Mi sporgo a ogni speranza più leggera
d’incontri, mi sorprendo mentre piego
a spalle immaginate
il capo.
Ora sento da questo
che ogni giorno mi cresce desiderio
di udire voci di stringere mani
di fare insieme a chi trovo, chiunque trovo, la strada,
sento il mio cielo che scolora e presto
si annera.
Un’urgenza affettuosa mi preme.
Da stanche luci di greppi pe’l fitto
del bosco a gradi precipiti calo
trafitto da richiami
a piana terra.
La ripa erbosa mi sfugge, m’afferro
alla pungente carità dei rami.

29 ott 2007

tema in classe

Al termine di una lunga requisitoria, i Pm di genova Anna Canepa e Andrea Canciani hanno richiesto una pena complessiva di 225 anni di carcere per i 25 manifestanti, imputati per devastazione e saccheggio nel processo sui fatti avvenuti durante il G8 del 2001 a Genova. La pena più pesante, 16 anni, è stata chiesta per la 41enne lecchese Marina Cugnaschi, imputata anche per altri due reati e considerata dagli inquirenti membro dei "black block"; richieste di condanne ultradecennali anche per Alberto Funaro e Francesco Puglisi (15 anni a testa), Vincenzo Vecchi (14 anni e 2.500 euro dei multa), Luca Finotti e Carlo Cuccomarino (12 anni). Per gli altri sono state proposte pene comprese tra 10 e 6 anni. «Chiedo a voi tutti - ha detto Canciani in aula - una volta accertata la responsabilità delle persone, di avere il coraggio di chiamare le cose che abbiamo visto con il loro nome, devastazione e saccheggio, come avremo il coraggio di chiamare massacro quello che è avvenuto alla scuola Diaz». Le cose, in effetti bisogna avere il coraggio di chiamarle col loro nome. Accettiamo l’invito e traiamo qualche conclusione. Devastazione e massacro. Della prima sono responsabili i civili, della seconda le forze dell’ordine. Sta bene. Vediamo allora di ragionare di conseguenza. Anni di carcere per chi ha spaccato macchine e vetrine, ancora più carcere per chi ha spaccato teste a persone. Sono più importanti gli uomini o le cose? La risposta è ovvia ma credo che la violenza di Bolzaneto non sarà stanata alla radice. Per i 45 imputati per i fatti della caserma aleggia la prescrizione. Ugualmente si prospetta indulto e prescrizione per i 29 agenti di polizia riconosciuti tra i responsabili della scellerata irruzione alla Diaz. Da una parte i “colpevoli” in carne ed ossa, capri espiatori, i “violenti contro le cose”, dall’altra “i servi dello stato”, i garanti dell’ordine, tutelati dal sistema che garantiscono, cui dobbiamo essere grati per un magnifico pregiudizio e per un maldigerito senso di colpa. “I servi io li tratto bene”. “I servi bisogna rispettarli, fanno il lavoro sporco che noi signori non vogliamo fare”. “Conservano le cose che possono o potrebbero essere mie”. “Possiamo punirli sì, colpevolizzarli mai”. Spaventosa ipocrisia del linguaggio. Servi. Gesù sarebbe stato coi servi. Pasolini pure. Allora tutti se la presero. Lui disse che era una poesia ironica. Forse lo era davvero. Sicuramente ironica l’idea di pensare che da una parte “giustizia è fatta” perché ci sono i colpevoli in carne ed ossa, e dall’altra “giustizia è fatta” per un risarcimento. Senza colpevoli. Infatti lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia. Come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete Lilliput, era seduta, con le mani in alto e fu massacrata di botte senza ragione. Per il giudice Angela Latella la selvaggia repressione genovese è coperta da una vergognosa cortina di menzogne e depistaggi da parte della Polizia di Stato, e, ben più grave, la sentenza genovese certifica che quella violenza non fu un’iniziativa isolata, ma avvenne in un preciso contesto. Un’altra brutta pagina di una democrazia imperfetta che ancora tende a lisciarsi il pelo parlando di “buona giustizia” (Lucia Annunziata). Forse in senso tecnico è così. Ma il discorso è diverso. Si tratta di responsabilità individuali, e la storia non possono farla le sentenze. E invece in Italia la giustizia è l’anticamera della storia; l’una si è sporta naturalmente verso l’altra in un abbraccio inquietante, in una farsa grottesca, l’una dilatando a dismisura i tempi, l’altra restringendoli. Una roulette russa tra “sommersi” e “graziati”. E che grazia. Cinquemila euro di rimborso alla pediatra e nessun colpevole a fronte a 225 anni di carcere. A luglio a Rostock ci furono quasi mille feriti e 130 arresti. Entro i primi giorni dall’arresto ci furono i processi: un 31enne fu condannato a dieci mesi di reclusione senza la condizionale per aver lanciato sassi, bottiglie e altri oggetti a ripetizione contro a polizia nei disordini. Pur nella sua brutalità, questa giustizia ha un senso. Magari è ingiusta subito, ma evita di proiettare la sua distorsione. E invece, così, abbiamo il tardivo rimborso e l’altrettanto tardiva pena esemplare, forse ancor più temibile perché parafrasando Leopardi “il male atteso è sempre maggiore del male presente”. Il messaggio è chiaro. Anzi sono due. Prima di tutto la magra giustizia non può che arrivare come grazia personale; come riconoscimento di un percorso di purificazione dovuto all’abnegazione del questuante e non a un riconoscimento dell’istituzione “in fallo”. “Devi meritarti il rispetto, tornare a parlarci”. “Gioca secondo le regole e saremo comprensivi”, “Te l’eri cercata ma ti è andata bene”. Di là invece i colpevoli veri, in carne ed ossa. Quelli che hanno attentato alla “Roba”. L’unica cosa più vera dei corpo.
La “pena esemplare” per l’arroganza, la sete di violenza, il fascismo esibito, l’uso arbitrario della forza, per la volontà di colpire innocenti; insomma, il risolutivo faccia a faccia con i reparti creati ad hoc come i Canterini Boys o i Ccir, i famigerati contingenti di carabinieri per gli interventi risolutivi, sono ancora là da venire. Già così il processo potrebbe costare allo Stato tra i 7 e gli 8 milioni di euro.

14 ott 2007

Letteratura Postcoloniale e della migrazione. Il caso Bahatt.

Ron Kubati è nato a Tirana nel 1971, da anni vive in Italia e ha pubblicato diversi libri. Carla Benedetti recensendo il suo ultimo romanzo scrive «sulla "letteratura migrante", che ormai è una realtà cospicua del nostro paese, sull'arricchimento che porta, sul suo valore non solo documentario ma anche letterario, è già stato detto molto. E anche sul rischio che la categoria, ormai diventata anche un genere editoriale, possa ingabbiare le diverse voci dentro a uno stereotipo. Ma questa è oggi la sfida di tutti quelli che scrivono. Viviamo in una società normalizzatrice in cui ogni singolarità è mal tollerata, criminalizzata, oppure ritenuta poco spendibile nella comunicazione e nel mercato».
Tutto molto vero, o quasi. Nei paesi di lingua inglese sono venticinque anni che razza e genere si mettono sullo stesso piano vendendosi infatti un sacco di opere di non inglesi che scrivono in inglese e di non eterosessuali che scrivono della loro non eterosessualità. Ma la fornace vera, l’industria, è quella della critica che va a braccetto stavolta sia con gli scrittori, sia con il mercato editoriale. Da un po’ mi trovo a meditare su questioni e una splendida risposta ad alcune mie idee la trovo in Cancellazione di Parcivall Everett, romanzo che consiglio. Il fenomeno che questo romanzo tematizza con ironica grazia, avevo cercato di esprimerlo recensendo Il colore della solitudine, di Sujata Bhatt, poetessa indiana di espressione inglese (trad. Paola Splendore, Roma, Donzelli, 2005). Il pezzo, chiestomi dall’“Indice” non si confaceva forse alle esigenze della rivista e giustamente non fu allora pubblicato. Lo ripropongo ora in questa sede ritenendo che tale discorso vada stimolato, e non sopito.

Il poeta romantico in lingua gujarati Narmad (1833-1886) seppe rapidamente appropriarsi di alcuni tratti fondamentali dell’occidente (fondò, tra l’altro, «Dandiyo», un foglio sul modello dello «Spectator») e scrisse una celebre canzone ricordata dal Mahatma Gandhi nelle sue memorie che diceva: «Guardate come i forti inglesi dominano i piccoli indiani Siccome mangiano carne, sono alti cinque cubiti». Oggi fortunatamente, e ormai da una trentina d’anni l’ipernutrita cultura anglofona dall’alto dei suoi cinque cubiti ha cominciato a guardare con interesse alla cultura delle ex colonie ed in particolare agli scrittori di lingua inglese, come Sujata Bhatt, una poetessa quasi cinquantenne nata ad Ahmedabad da una famiglia bramina e cresciuta tra New Orleans, la città di Pune, in India e il Connecticut dove il padre è chiamato a dirigere un programma di ricerca all’università di Yale.
Formatasi nel cuore pulsante della teoria americana su un canone esemplarmente “occidentale” (Hardy, Yates, Eliot, Stevens, Bishop, Williams etc.) Sujata Bhatt ha tradotto la poesia Gujarati per la Penguin Anthology of Contemporary Indian Women Poets e in inglese («lingua d’elezione della scrittura poetica» e «unica vera patria») ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Brunizem, Manchester, The Carcanet Press, 1988, premiata con il prestigioso "Commonwealth Poetry Prize") cui hanno fatto seguito Monkey Shadows (1991) The Stinking Rose (1995) Augatora (2000) e The color of Solitude (tutte pubblicate dall’editore Carcanet e tutte ampiamente antologizzate nella scelta compiuta dalla curatrice italiana coadiuvata dall’autrice stessa). Determinanti per la sua formazione sono il contatto con un poeta di rilievo come Eleanor Wilner (1937) (presente nella prestigiosa Norton Anthology of Poetry) e la frequentazione di un Writers’ Workshop organizzato dall’università dell’Yowa dove incontrerà anche il suo futuro marito, un giornalista e scrittore di Brema. “La lingua come condizione d’esilio” e “la viva restituzione della corporeità e dell’eros in un’ottica femminile” connotata da esperienze usualmente private di rappresentazione (Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei seni / di una donna incinta / al quarto mese?”) sono indubbiamente una delle cifre dominanti della poesia della Bhatt che tuttavia ha il suo valore in quanto poesia pubblicata nell’idioma più parlato al mondo e impostata su presupposti culturali tutt’altro che “marginali”, almeno nel mondo anglofono.
Lo dimostra il fatto che il problema del multiculturalismo cominci a farsi udire anche in Italia, e per di più in un “genere” o meglio “in uno spazio di mercato”, relativamente angusto come quello della poesia. Ma la poesia multiculturale cantata in The Multicultural poem «La poesia multiculturale è una creatura, un essere il cui spirito respira come un’orchidea al sole ancora umida di pioggia» assomiglia tanto a quella “ruota lucidata da due scrosci di pioggia” da cui "così tanto dipendeva", ed è avvicinabile in primis allo stile di quel poeta radicalmente monoculturale, in perenne lotta con il chiassoso (e paradossalmente reazionario) cosmopolitismo poundiano, che fu William Carlos Williams. L’equivoco dei “margini” porta ad una sovrapposizione dell’immaginario estetico e sociale non sente da rischi. Già è difficile decidere se e come esportare un modello politico, peggio coltivare in vitro un’idea di un valore letterario “anatomico” e “di genere”, perché l’abbaglio “dei cinque cubiti”, come il faquir della tradizione araba, è sempre lì pronto a sbucare ad ogni svolta d’angolo.

10 ott 2007

Moresco saggista (2) il conflitto di un uomo pacifico.

Ho detto che la critica di Moresco nasce come sfida ma ho anche parlato di una estrema gentilezza che caratterizza ogni suo scritto, una grazia che rende poetiche e miracolose anche le efferatezze dello stupratore di donne gravide, della bambina venduta al porno, della donna senza buchi, di quella avvolta nella carta stagnola e così via nei Canti. Ho usato il termine nel senso che gli conferisce il regista Davide Maderna quando scrive:

Mi viene in mente quella battuta di Nazarin (1958) di Luis Buñuel: la storia di un giovane prete fuori del comune, che vive ospitando prostitute e, ogni volta che riceve delle elemosine le offre ad altri, comportandosi da puro tramite; non possiede nulla, rifiuta qualsiasi ruolo sociale, perfino il ruolo sociale del prete. A un certo punto qualcuno gli chiede: “Ma lei sfida la società, sfida le ingiurie, gli insulti del popolo, dei suoi parrocchiani?”. E lui risponde: “No, io non sfido proprio nulla. Io accetto le cose come sono”. È un personaggio stralunato e non lo dice con boria. Il valore del termine ‘accettazione’ di cui vorrei parlare è un po’ questo: di qualcosa che si contrappone a quel germe di odio, di competizione insito nella parola ‘sfida’.

Moresco accetta di parlare. Non si butta nella mischia per avere il primo posto sotto i riflettori e poi non dire più niente. Un amico mi faceva notare che nell’ultimo aggiornamento della canonica Storia della Letteratura Italiana di Cecchi Sapegno viene dato a Moresco il “giusto spazio” e mi dice “e allora che vuole ancora”. Moresco stesso lo ripete in un intervento al salone del libro e in diverse occasioni. “No, non mi basta”.
Il grande merito, la superconvenienza, per così dire citando Céline in Mea Culpa, che Antonio Moresco poteva portare ad un lettore ventitreenne in procinto di laurearsi in letteratura italiana era di aprire gli occhi su un conflitto culturale in atto, sordo e senza spigoli: lamette da barba affondate nel cotone. Per comprendere Il paese della merda e del galateo il rimando a Pasolini contro Calvino è d’obbligo. Dei due saggi feci una lettura contigua e di seguito ci furono le Lettere a nessuno pubblicate sempre con Boringhieri, dove lavorava Berardinelli come consulente editoriale. Erano il quadro di un paesaggio desolante e la descrizione di un passaggio storico in prima persona. L’euforia per Gli Esordi, l’esplosione dei Canti del Caos, la loro novità creativa attutirono il primo colpo di quei saggi, che, tuttavia, negli anni continuarono a parlare adunando tacitamente non veri e propri interlocutori ma effetti di risonanza che portano più o meno tutti ad una rotazione dell’asse critico del discorso e al riesame di alcuni valori: Calvino, Eco, in primis, ma anche un certo Magris e Del Giudice e poi ancora tanti autori... Sintomatico leggere le diverse recensioni di Pent alla prima e alla seconda parte dei Canti del caos. Nella prima diceva in sostanza che l’autore se la canta e se la suona; nella seconda lodava la serietà e la coerenza del progetto o qualcosa di simile. In ogni caso io nell’accusa di Moresco ci vedevo anche qualcosa della mia generazione; ci vedevo tanta narrativa einaudi (Galiazzo e Bajani ad es.); ci vedevo anche una critica a certi miei racconti usciti sul «Maltese». Aveva colto nel segno, e aveva ragione. Certo prima di lui l’avevano capito altri: Fortini ad esempio aveva notato che Calvino, “l’ottimista all’ombra del potere”, tendeva a ridurre i conflitti e gli antagonismi storico-sociali a mero sistema di conflitti, ma Moresco mi aveva fatto capire in modo concreto quale era il limite di quella idea di letteratura. Me lo aveva fatto toccare con mano con due opere potenti e senza paragoni nel mercato editoriale italiano che si presentavano come una risposta all’impasse denunciata. Molti altri coetanei allora riconobbero la potenza di quella scrittura, la sua novità e anche negli anni di Dottorato, le persone cui parlavo della sua opera si facevano interessate, attente, oppure polemiche, comunque vive. Cosa rara nei corridoi dei dipartimenti. Quando feci conoscere la sua opera ad un amico che insegnava letteratura italiana all’università di Barcellona, quasi immediatamente decise di farla tradurre in spagnolo. Da allora Antonio si ricorda di me come il “motore immobile” e la cosa mi fa spesso sorridere. Queste sono le ragioni personali che mi hanno spinto a cominciare questo saggio e a scrivere questo preambolo. Dalla prossima puntata, i testi nel dettaglio.

9 ott 2007

Antonio Moresco saggista (parte I)

Leggo Moresco dai tempi di Lettere a nessuno. È lo scrittore italiano vivente che più ammiro. Abbiamo parlato in quattro o cinque occasioni e la mia simpatia si è ulteriormente incrementata conoscendo la persona. Date queste premesse è difficile imbastire un discorso ma mi piacerebbe riuscirci. Nelle puntate di questo irregolare feuilleton critico ci proverò.
*****
"E’ saltato questo, è saltato quello, abbiamo rotto i ponti con questo, abbiamo rotto i ponti con quello… Sono le letture teoriche di questi anni, le semplificazioni di questi anni, ad opera di un personale intellettuale che si è andato a chiudere da sé in questo vicolo cieco […] Una sorta di ceto intellettuale in perdita di statura e di status che legge tutta la realtà attraverso i propri piccoli schemi teorici e sociologici separati, che crede di essere in un posto e invece si trova in un altro infinitamente più drammatico e grande. Il tutto stando bene al caldo nel suo piccolo posticino, senza neppure le sia pur risibili furie modernistiche astratte delle Avanguardie Storiche, prese in contropiede dai tempi a venire. C’è in giro una lettura annichilente della vita e della “letteratura”, da parte di figure che si sono già date per vinte. Sono anni, sono decenni che lo stesso sguardo si ripresenta sotto aspetti diversi ma con lo stesso piccolo obiettivo di fondo. Adesso non si può più questo, non si può più quello… No, si può ancora, si può sempre. Siete voi che non potete. Non bisogna avere paura della grandezza perché la grandezza è sempre possibile. Tutte queste piccole teorie da macchine celibi, da spaventati, da figure specializzate che hanno paura di sapersi e di sentirsi dentro la stessa terribile grandezza e lo stesso rischio che vedono nel passato, in un passato pietrificato e disinnescato che leggono attraverso le loro lenti culturali consolatorie. Bisogna davvero essere molto insicuri della propria grandezza e dei propri sogni per avere una simile paura della grandezza!"
Per avere un’idea di come agisce Antonio Moresco scrivendo si può citare questo passo come innumerevoli altri dalla Visone (1998) allo Sbrego (2004). La scrittura di Moresco ripete, affabula si dispiega in cellule omogenee, ripetibili in sequenze variate, per partenogenesi. Moresco è il monolinguismo del nuovo secolo, la digestione del tempo traslata in uno stile immutabile che ha una propria inconfondibile impronta che si innesta direttamente nella lingua italiana, “letteraria” e non (chi mai d’ora in avanti potrà un periodo con l’aggettivo “fiorita” preceduto da virgola?) Moresco vive una tensione una sfida costante. Fin troppo facile attaccarlo. Il suo essere ferocemente disarmato mette di fronte ad un’immediata empatia o ad un aperto rifiuto, ad una simpatia senza limiti, o a un fervore da barricata. E le barricate, inevitabilmente sono sorte. Carla Benedetti, Tiziano Scarpa, Giuseppe Genna, Massimilano Parente sono lì a testimoniarlo; attorno a Moresco è concresciuta negli ultimi dodici anni una legittimazione spontanea, fondamentale, una cordata. Impossibile però prendere il pacchetto schierato sul “fronte occidentale” o nella Nazione Indiana in toto: e poi cosa c’entra il pur ottimo e trascuratissimo Drago, o il meno dotato Bajani con questo discorso? Posso amare Moresco e ritenere Parente un perfetto imbecille? E come non vedere in questa dinamica la ragione della diserzione critica dalla sua opera, il bisogno di prendere le distanze da un qualcosa che si compatta e fa gruppo? Viene da dire "il suo codazzo di accoliti ce l'ha e si lamenta ancora, quel mafioso, arriva lui e tutti un passo indietro a riverire... ma da dove cazzo arriva questo piantagrane" Moresco cammina per la sua strada, con furore e grazia (grazia che dimostra ad esempio rispondendo allo scomposto intervento di Cortellessa su Evangelisti) e ci riporta come una scheggia sottopelle agli anni Settata e poi alla dispersione degli anni Ottanta. Moresco è l’autore che ha transitato valori letterari e codici del secolo scorso verso il secolo nuovo delineando una traiettoria intellettuale che emerge chiaramente negli scritti a carattere saggistico, anche se parlare di saggistica ad Antonio Moresco forse non piacerebbe. La saggistica è settoriale, professionale “disinnescata”, inaccettabile. Moresco non intende accettare le regole del gioco fin nel loro fondamento più remoto. Neanche la lettura è lettura nel senso tradizionale del termine, ma visione. Bisogna sfondare le paratie stagne dei settorialismi e dei generi. Tanti lo dicono, pochi a parte lui sono capaci di farlo davvero. Per saggistica intendo però quei luoghi in cui Moresco parla dei libri o dell’arte, intendo quelle pagine in cui parla di una cosa scritta o dipinta che esiste e poi magari si sfonda in un'altra, come nello Sbrego, o secondo il titolo originale, nell’Adorazione.
Per arrivare a rifondare la condizione epistemologica il saggio (scusate i paroloni) bisogna però non solo rifondare l’atto di lettura, azione aleatoria e non comprovabile, ma aggirare il canone, espanderlo evolvendo, cercando di evolvere la società e la civiltà italiana. Questo è il Moresco saggista che affronta il peso del mondo; quello che riconsegna al campo letterario italiano il mandato imperativo della grandezza, quello che piglia i soldi di Silvio per consegnare lo Zibaldone al bacino linguistico dominante al momento, quello che ci fa scoprire che Dante in Giappone era una donna, quello che combatte per i Rom e intanto ci porta a ripercorre strade impensabili, da Bilenchi a Walser, da Louis-Auguste Blanqui al Il principe Genji. Moresco odia il termine “letteratura”, penso che odi anche il termine “intellettuale” e forse anche “storia” e chissà quanti altri patetici tentativi linguistici di limitare qualcosa che non deve stare chiuso in scatole predigerite e precostiutuite. Eppure se un critico si mettesse a scrivere seguendo la sua lingua e i suoi strumenti non farebbe un buon servizio, né all’autore, né ai lettori né alla critica letteraria nel cui scaffale in fin dei conti finirà il libro. Per questo dovendo scrivere qualcosa su Moresco non mi metterò a lavorare con dei “trasferelli stilistici” ma cercherò di indagare “la posizione storica dell’intellettuale e saggista Moresco nel Campo della letteratura italiana”. Quasi tutte le parole potrebbero essere cassate come castranti ma le uso apposta. Ho sempre trovato poco giustificato e un po’ snob il desiderio di Montale di “non essere conficcato nella storia” soprattutto dopo che hai lavorato tanto, davanti e di dietro, per essere il poeta-giornalista del «Corriere»; per questo pur ritenendo fondamentale “l’uscita dallo stato di minorità” di cui parla Antonio, il servizio che mi sentirei di rendere (anche a chi quella novità non volesse o non potesse intendere) sarebbe spiegare il nuovo con il linguaggio vecchio. Pigrizia intellettuale? Omogeneizzati? Algidi companion da future adozioni da curriculum e nient’altro? Forse. Se qualcosa ho imparato, mi esporrò anch’io a qualche rischio. Perché ci sono ancora le cattive digestioni, le piccole mediocrità, la pigrizia. Partirei con un confronto: ad esempio tra la forma saggistica di Amore Lontano di Sebastiano Vassalli e Lo Sbrego… (continua)

Belpoliti e il Settanta che manca

Alla fine del maggio 2002 alla Festa degli Autori di Cuneo presentai il saggio Settanta, di Marco Belpoliti, recentemente definito da Emanuele Zinato come “postmoderno” e “smaterializzante” (p.18); ne riparlai poi nel marzo 2006 all’Università di Salford (Manchester, UK) nel convegno internazionale “Italian Fiction in the Sixties and Seventies”, sponsorizzato dalla British Academy. A Manchester ebbi modo di confrontarmi con Ernesto Livorni e di ascoltare una splendida lezione di Enrico Palandri. In ogni modo, stuzzicato da Zinato riprendo il testo e alcune delle considerazioni scritte allora. Il libro è composto da sette saggi e lettore può trovare in essi il proprio percorso di lettura, oppure mano a mano familiarizzando con i protagonisti, leggere questi saggi come ideali "storie della letteratura" parallele, intese come vicende di quello spazio indefinibile e ideale che definiamo piano della letteratura; piano su cui scorre ed evapora un discorso critico da Belpoliti portato avanti con stile chiaro e di piacevole lettura, bilanciato tra Calvino e di Celati (la scelta di rendere discorsivo anche l'apparato di note bibliografiche, ricorda le Finzioni Occidentali, cui è dedicato parzialmente l’ultimo capitolo). Il titolo però è ingannevole perché molto si parla degli anni Sessanta e poco del decennio successivo. Si tratta di una serie di colloqui a volte reali, desunti da carteggi editi e inediti, a volte invece ipotetiche tra Calvino e Manganelli per il fantastico, tra Sciascia e Primo Levi per l'ordine delle somiglianze assimilato all'interesse per la radice antropologica del narrare comune anche a Pasolini e Calvino; abbiamo poi il dialogo a distanza tra Pasolini, Calvino e Parise di fronte a problemi come il ’68, la povertà, l’aborto, il divorzio, l’omosessualità (ostacolo per un aperto dialogo con Sciascia, che dichiarando «di essere comunque dalla parte di Gide e non di Claudel» dopo la morte del primo, si pente di quest'incomprensione). Parise con Pasolini vive un rapporto particolarmente tormentato principalmente dovuto (lascia intuire Belpoliti) alle diversità di temperamento. Calvino a Parise che «la miglior cosa da fare è ignorarlo», Viene poi evocata la contrapposizione Pasolini-Pavese avanzata da Fortini (nella Verifica dei poteri sarebbe però da ricordare anche il suo dialogo-contrasto a distanza su Spitzer con il Cases de Il testimone secondario, con la risposta di Spitzer a quest'ultimo). Negli anni Sessanta l'attesa del classico non viene rimossa o sopita ma semplicemente transitata dalla letteratura al mito, dal mito all’antropologia, dall’archetipo alla tachigrafy, al “documento” di Foucault. Così mentre Manganelli e Calvino che si interrogano sul valore del classico (e ancora il confronto obbligato è con Eliot) dall’altra parte ci sono i documenti dei pazzi, la storia della clinica, la dietetica e l'erotica, il comico di Folengo Rabelais etc…E poi l'Aretusi di Camporesi, che affianca il Pinocchio di Manganelli… C'è in vista il mare magnum della teoria letteraria, che transita, anfibia, tra le case editrici e l'università, con il suo carico di fascino coinvolgente: Calvino tra Bactin, Frye, Leiris, Queneau, Perec; Celati tra Frye e Deleuze (non quello di Différence et répétition ma quello della Logique du sens), la divaricazione tra mito e il sogno l'interesse di entrambi per il Romance. Ecco dunque gli anni Settanta, stretti tra storicismo e marxismo e il mito (di Pavese, Leone e Natalia Ginzburg e che transitano nella Einaudi e poi nella Adelphi e in Bollati Boringhieri), anni che scoprono la comprensione affettiva, il carnevale Bolognese, l'espressività la corporeità, la fantasia. Per Belpoliti i maestri sono Calvino e Manganelli (e in posizione defilata ma non meno importante Comisso e Parise) ma si parla anche di Camporesi, del gorilla Quadrumano di Giuliano Scabia, del Camion di Carlo Quartucci con i testi di Alberto Gozzi. È la Bologna di Penthotal, di Pazienza, della Traumfabrick dell’arrivo del fumetto. E qui si chiude il saggio di Belpoliti ammettendo nell’ultima pagina delle note che «la storia letteraria di quegli anni deve essere ancora scritta e dovrebbe probabilmente includere un capitolo in cui insieme a Tondelli, Palandri, Piersanti, si parli di Andrea Pazienza come narratore»: non un’apologia o una denigrazione «ma un la “storia di un modo di raccontare” che attinge da Celati, Scabia, Camporesi, Roberto Leydi, Gianni Scalia, e poi del rapporto tra utopie politiche e sentimenti, e di altro ancora». Peccato che siamo a pagina 302 e il libro è finito. L’analisi di una ricreazione intesa come un “ritorno partecipativo alle convenzioni” è ancora là da venire (anche se la liberazione della convenzione dallo spettro della retorica deve indubbiamente qualcosa all'estetica della ricezione e alla fusione degli orizzonti di cui invece in sede teorica s’è abbondantemente discusso dagli anni Settanta in qua). Quello che manca invece è l’incastro tra i due piani (teorico e storico). Come negli anni Settanta alla fantasia "ordinatrice", leggera e geometrica di Calvino (la retta, il cristallo) subentri la petite musique da “vita matta” lo raccontano ancora molto meglio i testimoni come Palandri e lo Scòzzari di Prima pagare poi ricordare, che i saggisti.

6 ott 2007

Una fonte per la botte...

Se Jonathan Swift avesse letto l'opera tedesca di cui si parla nella Prefazione a G. A. Junker-Liebault, Théatre Allemand: ou Recueil des meilleures pièces dramatiques, tant anciennes que modernes, qui ont paru en Langue Allemande, Précédé d’une dissertation sur l’origine, les progrès et l’état actuel de la Poèsie Théatrale en Allemagne, 2 Voll., Paris, 1772 (vedi anche Sketch of the Origins and Progress of Dramatic Poetry in Germany, «The Edimburgh Magazine», IV, August 1786, pp. 92-94), ad opera dei suddetti “antologisti”, potremmo forse avere una fonte per la sua celebre Favola della Botte (Tale of a Tub, 1704), magnificamente tradotta da Gianni Celati, che, ormai molti anni fa (si parla del 1998 o 1999) nell’ Hangar di Palazzo Nuovo, mi disse che per trovare un italiano adeguato e paragonabile a quello di Swift stile non poté rifarsi all'italiano del Settecento, quello di Beccaria e Verri per intenderci, ma ebbe bisogno di ricorrere alle Operette Morali del Conte Leopardi. Questo perché la storia letteraria di una lingua si muove seguendo non la cronologia storica, ma gli autori, che se la portano in bocca. Gianni Celati mi regalò allora alcuni suoi testi che forse un giorno pubblicherò su queste pagine clandestine: per ora mi limito a riportare qualche sua parola da un intervento su Swift per far capire qualcosa del suo ammirevole stile e per ricordare di quanta passione, impegno e levità ci sia bisogno per fare buona saggistica, indicando, fra l’altro, il suo Finzioni Occidentali come assoluto modello saggistico, note comprese. È l’unico libro di critica di cui nel 2001 feci un intera sinossi scritta fitta fitta su un quadernino delle elementari. Dopo aver ricordato la recente riedizione della geniale Modesta Proposta, testo il cui lunghissimo tiolo imparai a memoria in quarta liceo, affascinato e divertito, gli lascio la parola:

Oggi parlerò di Jonathan Swift, e il mio racconto comincia quando facevo l'università e mi è venuta la passione per Swift, ma una passione così forte che volevo tradurlo tutto. Avevo poco più di vent'anni, e mi sono messo a tradurre per conto mio quella che forse è la sua opera più stupefacente, intitolata Tale of a Tub, che fino ad allora non era mai stata tradotta in italiano. In realtà dopo sono andato avanti per oltre vent’anni a rifare quella traduzione, che finalmente è giunta in porto ed è stata pubblicata col titolo Favola della botte. Finita l’università ho avuto una borsa di studio che mi ha permesso di passare due anni a Londra, a studiare nella biblioteca del British Museum, e lì quello che volevo studiare e tradurre erano I viaggi di Gulliver, l’opera a cui è legata la fama universale di Swift. Ma anche questa traduzione si è arenata, ed è riuscita a vedere la luce solo due anni fa, soprattutto per via di lunghe rimuginazioni sull'autore che non riuscivano a trovare una conclusione. In breve, tanta è stata la mia passione per Swift, altrettanto forte è sempre stata la mia sensazione di non riuscire ad afferrarlo bene. Più precisamente dirò che, anche se letti e riletti per anni, i suoi discorsi restano elusivi e sfuggenti rispetto ai giudizi e le opinioni che ce ne facciamo…

24 set 2007

Es war einmal… Noventa - Fortini

Esistono giochi crudeli. Talvolta inutili, talvolta no. Esistono gli appelli in classe per contare i presenti, esistono le antologie. Sfogliando l'ormai vecchiotta antologia Garzanti di Gelli-Lagorio accanto alla vistosa esclusione di Gozzano (da anni annotata sulla prima pagina che contiene l'elenco dei nomi, tra Saba e Govoni) credo di scoprire oggi la mancanza anche di Giacomo Noventa. Poi mi accorgo che ero io che a matita avevo tirato una riga sopra il suo nome. Ora la cancello. Una giustificazione per allora: forse non lo credevo un poeta italiano. Ma quando leggo Fortini che lo traduce, capisco che il mio "canone" s'è perso un altro pezzo importante. Noventa all'appello che feci molti anni fa era assente, oggi lo riapprezzo grazie ad una serie di letture convergenti tra cui oggi segnalo il rencente saggio di Valentino Cecchetti che, dopo Adriano Olivetti, Giacomo Noventa e il socialismo magico (Bibliotheca), torna nuovamente ad occuparsi di Noventa con Una polemica sul frontespizio. Noventa e Giuseppe De Luca antimoderni, pubblicato quest'anno per l'editore Nuova Cultura. Per lo stessso editore ha pubblicato Tre studi sulla recezione di Péguy in Italia negli anni Trenta e una recente Introduzione agli studi culturali. (Nuova Cultura) che mi piacerebbe leggere. Cecchetti è autore anche di Cento Romanzi (Fazi) e Roberto Calasso (Cadmo).
Ora il testo.

Es war einmal… di Giacomo Noventa

Es war einmal ein Dichter,
Dessen namen keiner ehrt:
Von Menschen und von Dichtern
Zeigen Namen nicht den Wert.

Nach dem Sieg wurde er gerufen
Zum König vom deutschen Land.
Den Krieg wurde er berufen
Zu rühmen in manchem Band.

“König”, sagte nun der Dichter,
“Gott schütze dir deinen Sieg.
Jeder Deutsche sei dein Dichter,
Mir fiel mein Freund in dem Krieg.

Er war in dem Dorf geboren.
Wo auch ich geboren bin.
Und er ist für dich gestorben,
Lasse mich weinen um him!”

Der König lässt ihn nicht weinen,
(Kaiser kennen nicht diese Not)
“Die heute im Deutschland weinen,
Die begegnen morgen den Tod!”

So starb einmal ein Dichter,
Dessen Namen keiner ehrt:
Von königen und von Dichtern
Zeigt dieses Maerchen der Wert.

C’era una volta un poeta (trad. di F. Fortini)

C’era una volta un poeta,
Quel suo nome onore non ha;
ma né di uomini né di poeti
dicono i nomi la verità.

Quando vinta ebbe la guerra
il re dei tedeschi lo chiamò
ed in più tomi quella sua guerra
di cantare gli comandò.

“Sire, ti salvi Dio la vittoria,
(rispose il poeta così)
canti ogni tedesco la tua gloria…
A me in guerra un amico morì.

Il paese dove era nato
ha veduto anche nascere me.
Lasciami dunque piangerlo,
ora che è morto per te”.

Il re non vuole che pianga
(quel bisogno, chi regna non lo sa):
“Chiunque in Germania oggi piange,
domani morirà”.

Così una volta è morto un poeta.
Quel suo nome onore non ha;
ma dice di re e di poeti
questa favola la verità.

20 set 2007

Recensire un editoriale tv. prosa lirica

Politici condannati fuori dal parlamento. Pare ragionevole, non anarchia. Sarà anche un po' brusco dire un vaffanculo che ci porta un po' sul piano di "Elio e le Storie Tese" o Masini, a seconda dei gusti... però, però con infelicissima, involontaria, grottesca piaggeria del potere, colpevolmente confondere il terrorismo con quanto oggi accade, rimescolare le carte in tavola con finto senso storico; e fare tutto questo dal servizio pubblico, come servizio d'opinione, fa veramente accapponare la pelle... Sentite qua. L'umana superficialità miope, il pressapochismo, il farsi affascinare dalla ripetizione di un infelicissimo "grilletto"... peccati d'intelligenza mortale. E poi, l'appello al senso di prudenza di responsabilità, "evitiamo di creare vittime del fanatismo"... E poi, poi far salire invece il grado del pathos, ultimo rivolo di gabrieldannunziano, evidenza estetica della verità. Come a dire vuoi dei morti eh? No che centra, io volevo i politici condannati fuori dal parlamento. Pare anarchia ma assomiglia alla legge.

Periferia Pavese International suicide

Quest’ estate in Spagna ho comprato un numero di «Camp de L’arpa» del novembre 1979 dedicato a Cesare Pavese. Articoli di G. Mario Golodoff, J. E. Ayala-Dip, Robert saladrigas, Macelo Choen eccetera…sfogliando quelle pagine, pensai a quanto scriveva Wisława Szymborska nelle sue Letture facoltative: "L’Europa è un continente piccolo, diviso in piccoli stati, per di più. Si può dire che a ogni passo vi s’incontra un confine. Questa è ormai la specificità della nostra Europa, questa è la sua irripetibile bellezza…"
E d’altronde poi... Cinese e Hindi insieme fanno 1.100 milioni di parlanti. Le lingue occidentale più diffuse, Inglese e spagnolo, insieme neanche 700. L’ Arabo lo parlano 220 milioni, il Bengali, 190 milioni; il Portoghese, circa 180 milioni, Francese, 180 milioni, Russo, 170 milioni, Giapponese, 127, Tedesco, 100, Coreano, 78, Vietnamita, e Italiano 70 milioni, Polacco, quasi 50 milioni.
Sento spesso dire in giro che l’Italia è un paese minore. “Minore, minore… minore per forza” dico io. Le stime pubblicate da «Veranstaltungsskript von Christian Lehmann» e da «Ethnologue» nel 2005 parlano chiaro. Demograficamente parlando la struttura dell’immaginario dovrebbe conformarsi nel futuro secondo tutt’altri canoni rispetto a quelli cui siamo abituati. Le masse spaventano la reazione,: bisogna consolidare il canone; ma poi avvedendosi al solito che la forma della replica è la farsa, tutti ben felici di transitare latinità, dal formaggio ai grattaceli. La versione soft, la “meraviglia” e il “possesso” e poi, passo passo verso un auspicabile “negoziato”, tanto per rifarsi a tre termini chiave di Stephen Greenblatt.
Immaginiamo di comparare, con metodi empirici, il campo letterario dei tre ultimi paesi della lista di cui sopra, il Vietnam, la Polonia, l’Italia. Una sorta di dialogo umanistico in forma di “cimelio”. Tre intellettuali che discutono i valori per il nuovo millennio e della storia loro e dei loro paesi negli ultimi trent’anni, mettendosi in gioco in maniera personale, presentandosi e parlando dal crollo delle ideologie, delle utopie, della rivoluzione francese, dello stato costituzionale, del dialogo interreligioso, dei valori estetici, del Novecento, della morale sessuale, di quello che preferiscono insomma, così, a braccio, magari in forma breve, quasi aforistica… Ne verrebbe fuori un libro se non altro curioso per i tre rispettivi bacini.
E splendido bersaglio per i critici dei rispettivi paesi attratti da un boccone di così facile lettura: è nel contratto dover spiegare ad “altri” che non sanno o in ogni caso e per forza di cose sanno meno. Una bella tentazione per ogni scrittore di quel genere di fiction che è la saggistica. […] Andando più in giù nella lista di «Ethnologue», ai piani più bassi, tutte le lingue dell’Africa, il continente anche linguisticamente più sfracellato. Penso in particolare lo Hausa, che presenta una letteratura davvero interessante. Ma quando troverò il tempo di leggere capolavori lontani e sconosciuti: chi pubblicherà ( o Ha pubblicato) Muhammadu Garzo e Abubakar Imam; Abubakar Tafawa Balewa e Zaynab Alkali. O i poemi di Okot p’Bitek e di Sa’adu Zungur? E soprattutto, cosa più importante, saprò ascoltare? Riflettere su quanto in fondo l’Italia si senta “meglio” di Vietnam e Polonia. I bookmaker sarebbero tutti a favore dei campioni del mondo, dello stato più ricco, ma quante volte siamo capitolati?
Riguardo alla provincia universale, alla Polonia, e alla mia Spagna di «Camp de L’arpa» riporto infine da Imperfetta Ellisse una poesia di Jaroslav Mikolajewski, poeta nato a Varsavia nel 1960 tradotta dal polacco da Lorenzo Pompeo ed Eliza Piotrowska. Il titolo è “Cesare Pavese” e ovviamente tratta dello scrittore nato all’inizio di settembre novantanove anni fa a Santo stefano Belbo. Niente pettegolezzi, ha detto l’ultima volta. E ancora per un anno gli va bene.

Cesare Pavese”

Collina, vigne e la densa polvere della strada
Che sempre più dura si scioglie nella nebbia del mattino.
Un uomo con gli occhiali si sdraia sul ciglio
sotto una vite morta e rimembra
il paesaggio nascosto dietro le umide nubi. Alza la testa
soltanto quando i germogli secchi che gli solleticano la nuca
sono caldi e il sole ha spazzato via la nebbia dalla strada e dalle colline.
Tutto è rimasto uguale, solo la luce è diversa
ricorda un ragazzo di quella stessa terra
osservava gli animali e la gente sui campi.

Respirando il profumo delle foglie fumanti l’uomo cammina
verso la città dietro la collina. Quelli attorno ai quali passa,
non si distraggono dal lavoro, non volgono lo sguardo
dalla strada. Neanche le donne fanno caso al cielo
e scoprono i fianchi al sole, come grappoli d’uva
assorbono il pomeriggio.

Quando in periferia
sente sotto i piedi l’asfalto duro, l’uomo
pensa a se stesso come un mare, che non genera niente,
nel quale il futuro è già morto e sepolto.

3 set 2007

I premi: polemiche bilanci. Le scarpe gialle di Fruttero e Claudel

Tempo di veleni e di premi, di indignazioni e cronache, di fastidi. Campiello e Viareggio. Nel primo caso il poeta e giornalista Mario Baudino propone l'inversione della cinquina scelta dalla giuria proponendo Fruttero, Zaccuri, Bugnaro (d'accordo ma propongo un ex equo tra i due secondi). Nel secondo caso c'è solo da leggere il carteggio on line del premio Viareggio per capire il clima in cui si gioca il tutto. Berardinelli si dimette, Ficara e Rasy sono tra i dieci firmatari della lettera di protesta indirizzata al sindaco. Franco Loi con le sue Voci di osteria (Mondadori) se l'era gia battuta dichiarando di non voler parteciare alla gara, i tre aspiranti vincitori per l'opera prima Simona Baldanzi (1977) Paolo Colagrande (1960) (già vincitore del "Campiello opera prima") e Paolo Fallai (1959) sono in inbarazzo per essere venuti fino alla serata per niente. Finita la stagione, un bilancio, pensando anche allo Strega. La vittoria di Amanniti mi pare abbia rivelato e consacrato un salto nel campo dei valori economici ed estetici (la breccia, però era di Veronesi), poi salta agli occhi il successo di una scrittrice di forza e maniera, Milena Agus (seconda anche al Campiello) una macina-tam-tam-"libro da niente"- che fa la gioia di Nottetempo e assicura qualche futuro. I giorni innocenti della guerra di Mario Fortunato è interessante per ragioni che ora non dico ma che hanno a che fare con la "postcolonialità" di Saviano, incautamente introdotta e che attiene anche la Vestaglia Blu di Simona Baldanzi. Ma di ciò diremo. Preferisco tacere invece di Le stagioni dell'acqua di Laura Bosio e de Il profumo della neve di Franco Matteucci in concorso allo Strega e della vincitrice del Campiello Mariolina Venezia (Mille anni che sto qui" Einaudi) che avrebbe dovuto essere stracciata dal Romolo Bugaro di Il labirinto delle passioni perdute (Rizzoli) e da Alessandro Zaccuri con Il signor figlio (Mondadori). Venendo alla poesia, credo di preferire Michele Mari e la sua "Ladyhawk" al "marmo" di Silvia Bre e anche nella saggistica mi dissocio dalle votazioni e propendo decisamente a favore de il Testo Visivo di Agamben della piccola editrice Marinotti piuttosto che con la solita Einaudi-piglia-tutto.
Venendo infine al tanto patito Viareggio, Filippo Tuena l'ha spuntata sul forse più blasonato (e a me sempre simpatico) Ermanno Cavazzoni. Il romanzo di Tuena non l'ho letto ma conosco le sue poesie. Sull'intelligentissimo e meritorio sito "Nonleggere" potete ascoltarlo mentre ne legge. Vi invito a notare il nome dell'editore che pubblica i Quattro Notturni (La collana "Le Remore" di Giuseppe Aletti) e notare la solita sproporzione tra due linguaggi, uno che è sul mercato, e uno no. Mi stupisce poi vedere che tanta parte di quella scrittura che vende così tanto è fatta da persone che, da subito, di primo acchito, d'isitnto hanno praticato quella scrittura che vende così niente. Gli esempi si sprecano, dagli anni di Pirandello a quelli di Baudino, Fois e Paola Mastrocola, tanto per citare i primi tre nomi che mi vengono in mente. Cosa diceva Croce dello scrivere poesia dopo in vent'anni? Se aveva ragione lui lo si dica a chiare lettere.
Ripenso infine a Vespa intrvisto l'altra notte disquisire di scarpe gialle con il vincitore morale del Campiello. Ironizza sulle calzature. Sta bene, ne sutor ultra crepidam, ma mi viene in mente anche un aneddoto poco conosciuto che riguarda Dino Buzzati. Sorpreso mentre guardava una fotografia a colori di Paul Claudel, il poeta e drammaturgo e diplomatico francese, il pingue Claudel contro cui Celine aveva (a ragione) schiumato la sua bile, si era sciaguratamente fatto ritrarre con un ginocchio a terra, sul viale di un giardino, nell’atto di cogliere un fiore da un cespuglio. Buzzati, uomo di attenta eleganza, commentò: “Però ha le scarpe gialle”. L’occhio dell'interlocutore corre alle sue, di scarpe; anche l'arguto Rinaldo De Benedetti le aveva gialle. Buzzati cercò di dissipare l’imbarazzo, osservando che Claudel, un poeta, avrebbe dovuto stare più attento. L'imbarazzo delle scarpe, ciclicamente ritorna, come a ricordare che in tutti i giochi c'è sempre qualcuno cui "vogliono fare le scarpe"...

2 set 2007

Ancora al Sud: il giovin Saviano e gli altri.

Dalla Sicilia alla città di Basile, Della Porta e Matilde Serao. Sotto l’egida bonaria di Raffaele la Capria e di Enzo Golino (ma esiterà poi, l’egida?), come vanno le cose? Se penso all’abisso che separa l’intransigenza offensiva del “provinciale cuneese” Giorgio Bocca (Napoli siamo Noi, Mondadori, 2006) mi rendo conto che “l’armonia” è davvero “perduta”, per parafrasare un libro di La Capria uscito nello stesso anno. Eppure, tra le grandi città, Napoli è oggi quella in cui il panorama letterario pare più fiorente. O quello che oggi ha maggior portata di “capitale simbolico”. Troppo facile dire che l’esordio di Saviano (che come numeri supera di gran lunga i numeri dell’esordio di Brizzi) “tira su” tutta quanta un’area geografica, e che sposta le attenzioni, gli equilibrii, i temi: Gomorra arriva su un terreno editoriale e contenutistico molto preparato: quello dei “disertori” pubblicati nell’omonima antologia del 2000 nella collana Stile Libero per la cura di Giovanna De Angelis. Che comprende Antonio Pascale (1966) Giosuè Calaciura (1960), Antonio Franchini (1958) Maurizio Braucci (1966), Diego de Silva (1964), Davide Moranti (1965). Lasciamo perdere i forse troppo sponsorizzati Erri de Luca, o Marosia Castaldi e ricordiamo invece i policentrici irregolari e colti, come Gabriele Frasca (1957) o più “miltanti”come il citato Braucci ed il fulmineo e vulcanico Lello Voce (1957), animatore indiscusso di un movimento di “democratizzazione poetica” non da poco quale lo "Slam Poetry". Tra i narratori di territorio segnaliamo almeno Peppe Lanzetta (1954) e Giuseppe Montesano (1959). Tra i giovani Piero Sorrentino (1978) e “the big one” ovvero: il giovane autore di Gomorra, che da qualche tempo anche firma regolarmente pezzi e reportage per l’«Espresso».
Nel numero del 23 agosto parla della sua ossessione per la “questione meridionale” e cita Salvemini, Giustino Fortunato e Ernesto Rossi. Pensatori che del sud avevano capito tutto. Tra i politici cita Berinotti come unico politico recatosi a Casal del Principe e ricorda con rispetto l’Msi legalitario di Almirante. Come a dire: salviamo il radicalismo della base, la spinta che muove a compiere l’atto, accettando le gioie (il successo) e i dolori (la scorta, e la paura) che ne conseguono. Per quanto mi riguarda ammiro Saviano e credo che lui sia il primo scrittore post-coloniale italiano. Non è una boutade: chi legga l’articolo del colloquio con Gianluca di Feo può sentirlo, anche nel suo modo di riproporre la questione, importantissima.
La gloria, per gli antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della fama, cominciava a prendere aspetti paurosi. Un orrido mostro che possiede tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. Saviano suppongo potrebbe affrontare e meditare ogni giorno la questione. Il suo “differente posizionamento” non è da cercarsi nei riferimenti a Pamuk, Rushdie, ma nel fatto quasi unico nella letteratura scritta in Italia negli ultimi anni, non solo di un intellettuale “protetto”, in pericolo per quello che ha detto, ma anche di uno scrittore liberato della scrittura. E anche per questo Saviano lo definisco post-coloniale. Mutatis mutandis tale liberazione era toccata anche a Gavino Ledda, che quando andavo a scuola si faceva leggere alle medie o al primi anni delle scuole superiori; lo stesso sta succedendo a Saviano, già "adottato" in molte scuole. Saviano dice che non è la scrittura che libera lo scrittore. No. È il lettore che rende libero lo scrittore. Il lettori liberano, distruggono la censura, l’omertà. Chissà se anche lui dopo il successo ed un possibile film cercherà l’intransigenza incomunicativa e bucata di un Aurum Tellus? Non credo, in ogni caso, si vedrà. La storia rilassa e Pirandello aveva parlato più di una volta del «piacere della storia». «Nulla di più riposante della storia, signori» aveva esclamato un suo personaggio. «Tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi. Nulla v’è di certo. Mentre nella storia tutto è determinato, tutto è stabilito.» E ogni effetto segue obbediente alla sua causa con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale ecc. ecc. Rilassa meno, la storia, se qualcuno ha l’ansia di fartici passare.