28 lug 2007

Nacci e Orgiazzi: due volenterosi cacciatori.

Molto di quanto detto nel precendente post viene dalle analisi apparse su settembre per il numero (87- speciale) di Fucine Mute ad opera del triestino Luigi Nacci (1978) che si propone di fare sia una mappa analitica dei festival (comprensiva delle politiche da cui sono mossi) sia di avere una data, il 2009 per un lavoro di sintesi sul decennio 1999-2009. Le analisi sociologiche aventi come oggetto l’ambiente della poesia sono state in passato, soprattutto tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80, numerose e le conclusioni di tali indagini sono per la gran parte valide anche oggi. A tal proposito Nacci riporta due osservazioni di Antonio Barbuto datate 1981, a prefazione del volume Da Narciso a Castelporziano. Poesia e pubblico negli anni settanta (Roma, Edizioni dell’Ateneo). Il volume include più di 60 interventi firmati da poeti e critici molto differenti tra loro, come Barberi Squarotti, Sereni, Porta, Sica, Cucchi, Sanguineti, Bellezza, Giuliani, Pecora, etc.) da lui stesso curato: «è pressoché impossibile catalogare una enorme produzione poetica disseminata perlopiù in riviste e rivistine introvabili o in plaquettes quasi clandestine [...]. Se finora l’antologia veniva definita come strumento di storicizzazione o museo, ovvero come manifesto di tendenza, oggi è forse più corretto chiamarla raccolta per la difficoltà obiettiva di costruire un’antologia per così dire storica o di tendenza». Come Nacci anch’io credo che uno studio socio-antropologico dell’ambiente della poesia odierno sia oggi quanto mai necessario. Lui ci ha provato in una prospettiva territoriale con L. Nacci, Trieste allo specchio. Indagine sulla poesia triestina del secondo Novecento, Trieste, Battello stampatore, 2006: una ricerca in cui, dopo aver analizzato i dati di un questionario compilato da 110 poeti, ha costruito un archivio di tutte (o quasi) le pubblicazioni di poesia da parte di triestini (nati a Trieste o a Trieste vissuti, anche per poco) dal 1950 al 2002. Una fatica immane: più di 350 poeti elencati.
Analoga generosità muove il meritorio blog LiberInVersi di Massimo Orgiazzi fondato nel giugno 2005. Da allora ha ospitato, senza preclusioni di sorta, più di 70 poeti, in buona parte giovani. Da vedere inisieme alla sua nuova rivista-blog on line: L'attenzione.

Antologia e critica

È vero, sull’onda del neo-comunitarismo-panacea di cui parla Bauman in Modernità liquida (Laterza, 2002) si avverte una frammentazione dell’ambiente poetico in zone auto-sussistenti come questa, “riserve”, come sostiene Roberto Galaverni nel suo Dopo la poesia, che trovano il proprio spazio ideale nella rete. Infatti chi volesse seguire qualcosa delle produzione poetica italiana fino agli autori nati negli anni settanta, in libreria non ha molte possibilità di documentazione. Realisticamente parlando negli ultimi tre anni il lettore medio che vede un po’ di tutto (ma solo di “quello che c’è”) in libreria può aver trovato i Nuovissimi poeti italiani, a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, Milano, Mondadori 2004; Samiszdat. Giovani poeti d’oggi, a cura di Giorgio Manacorda e Paolo Febbraro, Roma, Castelvecchi, 2005 (allegato a Annuario di poesia 2005) e, ma solo se si ha avuto la fortuna di comprarla subito (anche un critico attento ed aggiornato come Davico Bonino mi diceva di non averla fatta), la poderosa Parola Plurale, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena, Roma, Luca Sossella, 2005, cui si affianchino i due volumi critici del già citato Galaverni e il corposo volume di Cortellessa uscito per Fazi. E se quelle antologie non erano ancora “il momento critico”, pare che tale momento, il momento del confronto ora sia giunto. Diverso infatti il caso di due altre antologie abbastanza recenti come Maledetti Italiani a cura di Davide Brullo, per le Edizioni Net del gruppo editoriale Saggiatore, e Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007 a cura di Andrea Afribio. Nel primo Brullo offre un vero e proprio canone alternativo del “secondo novecento poetico”, dando rilievo ad autori meno noti rispetto al loro reale potenziale ed alcune scelte mi trovano assolutamente d’accordo, ricordandomi tra l'altro la dimenticata antologia romana di Bordini negli anni Settanta. L’antologia di Afribrio (recensita con interesse da Cortellessa su «Tuttolibri» e da Giuseppe Tomasin sul domenicale de «Il Sole 24 Ore») si propone invece un percorso critico, una scelta antologica che è anche ricerca non tanto o non solo di una poetica, ma di un valore letterario comune ai diversi autori. In entrambi casi si trova il lodevole tentativo di fare una critica che sia anche espressione di un giudizio di valore, a carte scoperte, cercando di leggere, comprendere e mettersi in gioco. Questi testi ovviamente sono la punta dell’iceberg di un discorso molto più ampio e chi volesse entrare in un terreno meno certo e più difficile da seguire, ma anche più affascinante nelle sue mutazioni, dovrebbe prima di tutto mettere momentaneamente tra parentesi il giudizio di cui sopra e cominciare ad affrontre l'argomento con strumenti più empirici quali ad esempio il criterio biografico delle nascite o il criterio "sociale" dell'uscita a stampa; e tali dati incrociare con la teoria letteraria, magari con la nozione di campo, con l'analisi statistica della presenza territoriale, regionale e nazionale, considerando il grado di "capitale simbolico" dell'ubicazione geografica eccetera. In rapporto alla definizione di campo è importante tenere in assoluta cosiderazione i "gradi di forza" che determinano le nascite di antologie e nuovi poeti, ovvero essere in grado di analizzare lucidamente il lodevole desiderio comune di molti poeti affermati, di veder "proseguire il discorso", di sperare un giorno onorata la loro memoria. Per fare ciò e già l'esempio di Parola Plurale lo dimostra, ci vogliono anche dei critici.
Uno strumento fondamentale per addentrarsi nel terreno di cui sopra sono sicuramente i Quaderni italiani di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni usciti dal 1991, nove volumi ad oggi, con presenze di poeti nati dal 1955 in poi. (Per una storia dei quaderni vedi qui)
Si vedano poi le antologie Nodo sottile. Antologia di Poesia Under35, a cura di V. Biagini e A. Sirotti (due volumi per Cadmo nel 2001-02, il terzo per Crocetti nel 2003); nonché le antologie Parco Poesia dell’omonimo festival riminese (l'e-book lo trovate qui ma si paga ). Gratis invece potete scaricare Ma il cielo è sempre più blu. Album della nuova poesia italiana, a cura di Aldo Nove e Lello Voce, 2002 e l’importante Lavori di scavo. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, a cura di Giuliano Ladolfi. Buona ricerca.

24 lug 2007

Primi Tempi dell'Hangar

Negli anni d'Università 1995-1999 vissi a Torino. Un giorno, avrò avuto ventuno anni, venne dalla California Luigi Ballerini a tenere una bella lezione su Cavalcanti, invitanto da Carlo Ossola. Mi piacque, era dinamico, colto, una bella moglie, una gioia e un modo di fare spigliato, un'ironica lontananza dalle posture romantiche, un' amore ad oltranza per il letterario, per il trobar clus, per la bellezza a frammenti di Pound, e poi l'interesse per la poesia visiva... insomma quei valori mi piacevano e qualche tempo dopo aver letto e molto amato Il terzo gode (Marsilio) dissi non so per quale motivo a Barbara Lanati che la sua poesia mi sembrava meglio di quella del resto della neoavanguardia. Lei amava la poesia di Ballerini ma invitò a tenere presente che il nome del figlio di Luigi Ballerini era Edoardo. Ovviamente Barbara alludeva a Sanguineti di cui ho già detto. Qualche tempo dopo rividi Luigi Ballerini ad una presentazione dei suoi Stracci shakespeariani presentato da Giorgio Ficara, un critico che pareva a suo agio tanto con quelle poesie incomprensibili, quanto con quelle diversissime di Giuseppe Conte (di cui postillò un edizione de L'oceano e il ragazzo per Bur). Pensai: "io sarò incoerente ad apprezzare l'epigono Ballerini e non il protoripo Sanguineti, ma almeno a me Conte non piace". Uno monta la luna (Manni) è il suo testo di poesia più risuscito; meno mi convinse Cefalonia. Negli anni chiedendo in giro vedo che Ballerini piace a pochi che non siano in qualche modo epigoni di una posizione avanguardistica ed il suo caso mi parve paradigmatico di una realtà della poesia abbastanza sconcertante: la verità è a priori: nessuno "stava su" con la sua opera. Nessuno "stava su" con la sua voce. Era quasi tutta una questione non solo di correnti, ma di vere e proprie carte bollate, di certificati e patenti. Non è una questione di generi come per la prosa. dove è lecito dire : "Io scrivo gialli. tutti quelli che leggono e buona parte di quelli scrivono gialli rispettano il mio lavoro, tu che cazzo vuoi?". Impossibile fare lo stesso in poesia, o almeno nel 1994-1995 mi parve impossibile, e trovarmi un nume tutelare mi parve inutile. Scrivevo poesia ma qualsiasi sfrorzo per farsi conoscere in un mondo così privo di legittimità benché carico di passione, mi sembrava un inutile esercizio di narcisismo. Eppure l'ansia di essere conosciuto era grande quanto la paura di cadere nel vuoto. Al salone del libro nel 1997 o 1998 non ricordo lessi nel laboratorio di poesia di fronte a Krumm, De Angelis, Cucchi, Ricciardi. La mia poesia piacque a Krumm e non dispiacque affattp agli altri. Ebbi allora il vecchio biglietto da visita con la bici di Cucchi, quello Mondadori di Ricciardi e poi il numero di Ermanno Krumm. A De Angelis invece la poesia non era piaciuta molto e solo il verso "divani sfoderati una volta per tutte, / il velo d'asfodeli prima del vuoto" aveva incontrato il suo gusto. Mi trovava troppo ironico e quel giorno mi pareva un po'incazzato. Comunque il risultato e l'attenzione ci furono. Qualcosa c'era stato. Tuttavia negli anni a venire non chiamai mai nessuno di loro. Mi spaventai forse, fatto sta che mi chiusi a riccio per una decina di anni e cominciai a cercare di leggere i libri di tutti quelli che cercavano di essere poeti o lo erano diventati. Prima della mia poesia volevo fondare il mio giudizio ma il dolore fu grande quando constatai di non sapere mai se la pula l'avevo io negli occhi e tra le mani: nei primi tre volumi dei quaderni dei Nuovi poeti italiani Einaudi, la prima cosa che mi capitò di leggere, trovai poco e niente e la ragione di tanti poeti mi sfuggiva. Il giudizio delle letture di quegli anni era un'ecatombe: meglio tacere che parere ingrati, ma ogni tanto qualche scintilla... che dopo qualche lettura si riduceva... poi mi accorgevo d'essermi ingannato e dicevo che era inutile stare con la testa sotto in quello sforzo...ma poi ripensavo a quante litigate con stronzi che scrivevano poesie senza aver letto mai niente di altri poeti e a quanto odiavo quel sordo altezzoso dibattersi: "ma scusa se suoni la chitarra elettrica possibile non avere mai voglia di ascoltare un'assolo di Hendrix, di Gilumur, di Frank Zappa?" Un primo criterio di distinzione c'era e l'avevo trovato. Ogni serio poeta leggeva molto. Leggeva gli altri, li pensava spesso come esseri umani e come poeti.

Mappa e graffito: Nove, Sanguineti, Erba, il sociale e il non.

Una volta a Pozzolo Formigaro ho visto sulla sarracinesca di un Garage la scritta: "è tutto loro quello che luccica". Risi perchè agli anonimi restano le idee che non stanno sulla mappa. Ma non fraintendiamo, vero è come ci ricorda Alfred Korzybski che "la mappa non è il territorio che essa rappresenta" (Science and sanity, 1933) ma se è esatta, la mappa ha una struttura simile a quella del territorio, che ne spiega l'utilità". Ma alla mappa manca la profondità e la profondità come corpo e dimensione di qualcosa in qualcos'altro, in letteratura è tutto. Preferisco pensare allora che la mappa è, secondo l'antica etimologia fenicia ripresa da Quintilliano, la tovaglia da pranzo. Viviamo in un tempo in cui tutto s'apparecchia e non si mangia mai. E tuttavia in questo forzato digiuno ogni briciola sazia come le dolci barette che mangia chi va verso il polo, e resta sazio per quattro o cinque giorni. Cerco di immaginare Aldo Nove, ad otto anni di fronte a Guido Ballo che declama l'inconprensibile a Viggù. E lì, di fronte il nascere di mille altri ripenso che ho visto molto in ritardo a diciotto anni il mio primo poeta in carne ed ossa in una grande sala di Torino. Sotto un lampadario scintillante a dodici braccia lui diceva alle vecchiette azzimate di scrivere per la lotta di classe e il proletariato. A me che gli unici poeti che avevo letto erano Yates, Esenin, Eliot, Seferis e Beckett mi pareva di essere subito convinto che quella era la strada di oggi, ma lì mi ci aveva portato un amico coetaneo molto più addentro alle cose di poesia mentre io sentii solo Sanguineti un po'alticcio di due o tre negroni ed ero già disposto ad applaudire incondizionato. Invece uscimmo prima e fuori con l'amico portammo via un cartone pubblicitario di quelli che stanno a terra vicino alle edicole. Sopra ci scrivemmo un "manifesto demistificazionista": lui aveva le idee chiare e Sanguineti non gli era piaciuto. Lui amava Sereni. Insomma a me un po' l'idea di avanguardia invece piaceva perchè non riguardava Milano, la resistenza, la storia etc... mi piaceva perché la sentivo pura letteratura che era quello che mi piaceva e anche se non si capiva, anche se non dava emozioni-perugina tanto meglio. In ogni caso di quel manifesto in versi ricordo il verso "Sanguineti sei stato, non lo nego / e me ne frego". Che pessimo inizio nel campo. Sì perché io qui già nel campo ho già fatto un tremendo passo falso e chi leggesse potrebbe dedurre dall'insoffernza per la poesia del compagno Edoardo che ero un diciassettene reazionario. E invece per me era lo stesso spirito che quando Sanguineti era allo zenit, faceva scrivere negli anni Settanta sui muri di Bologna "Gaime Pintor chi legge" come avevo visto in una vignetta di Pazienza, o, ad un livello storico del tutto diverso, andando ancora a ritroso nel tempo, lo spirito che mosse inpolitici nati a gesti nuovi: Luciano Erba in spalla ad un amico nell'attuale via Washington a Milano, allora dedicata ad un figlio di Mussolini morto in un incidente aereo nel 1941. "Via Bruno Mussolini". Sotto il nome della via Luciano scrive "Adesso via anche il padre". Talento.

23 lug 2007

Censura di stato: Frigidaire & C.

Sul già trattato tema di "letteratura e fumetto" segnalo il bell'intervento di Andrea Spartaco

sulla rivista "LucidaMente", II (6) EXTRA, 15 luglio 2007, supplemento al n. 19.

Arance di sicilia: provincia e capitale

«I fatti fisici non hanno realtà, è l'arte sommamente reale» dice Croce nel suo Breviario di Estetica. In una teoria del campo questo non è propriamente vero, anzi. Proseguendo la "proposta velleitaria" di Mozzi che già abbiamo fatto nostra, e tentando di fornire un’elementare mappa meramente geografica del campo possiamo dire che uno scrittore nato e vissuto in Piemonte e uno nato e vissuto in Sicilia partono da presupposti e tradizioni differenti. Sono i diversi i termine della loro dialettica che si appuntano su elementi diversi precostituiti. Vero è che il Gruppo ’63 vide la luce a Palermo ma per quanto ad esempio i percorsi di un Sebastiano Vassalli (piemontese) e un Michele Perreira (siciliano) furono convergenti?. Certo entrambi, e tutto il gruppo tentavano di dare risposte proprio al soffocante provincialismo di una cultura che si era improvvisamente svegliata in ritardo rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Il recupero dell’avanguardia storica e la scoperta del formalismo (nei paesi dell’est già vecchio di settanta anni) rappresenta un effettiva anche se momentanea liberazione da una serie di vincoli oppressivi, tra cui anche la liberazione dal vincolo geografico; e d’altronde per una teoria che invitava a mettere da parte la servitù dal dato biografico ed affermava il primato del letterario come materiale e sistema quale spazio avrebbe potuto avere un’opzione geografica? Quaranta anni fa questo discorso sarebbe parso fuori moda, forse reazionario; andando indietro di altri quaranta anni i futuristi ormai in cattedra probabilmente mi avrebbero dato del “passatista” e “antinazionalista”. Per una “teoria del campo” invece credo che queste elementari considerazioni siano non solo attuali, ma necessarie nel mostrare come il discorso egemonico dell’avanguardia si oppone ai limiti e alle strettoie dell’egemonia “geografica” che tiene in stato di minorità la letteratura italiana, e lo fa partendo e nascendo non a Milano, il luogo dove è più facile fingere cosmopolitismo, ma proprio in un luogo in cui la “cifra territoriale” e più marcata e in cui l’identità geografica è orgogliosamente preservata. Come ad esprimere tacitamente “se il rinnovamento parte da qui” tutta l’Italia farà a gara per essere più avanti di Palermo…”. Onestamente non credo che questo sia stato pianificato nei termini appena descritti, tuttavia così è accaduto. Lasciando da parte la questione veniamo alla descrizione della geografia letteraria siciliana, avvalendoci del prezioso sostegno di “Stylos” della Domenico Sanfilippo Editore, uno delle più valide pagine di cultura nazionali (introvabile nelle edicole del piccolo capoluogo piemontese da cui scrivo). Inutile dire che Verga e Pirandello sono i numi tutelari; ad entrambi si sono votate due generazioni distinte di scrittori. Cosicché, alla rappresentazione della realtà immaginata da Verga, che ha raccontato il suo mondo secondo quanto i suoi personaggi vedevano, si sono indirizzati quanti, da De Roberto a Camilleri, passando per Vittorini, certo D'Arrigo, e Sciascia, hanno individuato nella realtà in sé, nell’esperienza, il dato narrabile; alla rappresentazione della realtà colta da Pirandello, che ha raccontato il suo mondo secondo quanto i suoi personaggi sentivano, si sono volti invece quanti, dal dimenticato Francesco Lanza a Vincenzo Consolo, per il tramite di Bufalino, Brancati, Bonaviri, Salvatore Fiume, hanno invece considerato il solo elemento idealistico, non esteriore all’uomo ma interiore. Accanto o attorno a questi nomi figurano poi una lunga serie di autori viventi che hanno rinverdito i due coté, occupando posizioni mediane oppure innovando la tradizione. Penso ad autori come Silvana Grasso, Silvana La Spina, Roberto Alajmo, Giosuè Calaciura, Domenico Conoscenti, Santo Piazzese, Melo Freni, Evelina Santangelo, il già citato Michele Perriera, e poi i poeti Emilio Isgrò e Nino De Vita, per i quali è valso il senso della realtà irrelata di una Sicilia meno consistente e materica e più immaginata o immaginifica, ai quali va il merito di aver superato la pregiudiziale verghiano-pirandelliana prefigurando nuove soluzioni narrative. Nei decenni del dopoguerra la critica letteraria è stata attentissima agli svolgimenti letterari siciliani anche perché oggi (Camilleri) come cinquant’anni fa (Tomasi di Lampedusa) gli scrittori siciliani sanno essere autori di best sellers o di “opere uniche”, “casi” (Horcinus Orca). Non tanto e non solo la critica siciliana “d.o.c.” (i Tedesco, i Di Grado, i Traina, i Gioviale...) si è dunque occupata di questa letteratura, ma una generazione di critici più giovani non ha risparmiato studi e riflessioni, forse ricordando l’idea di Sciascia che vedeva nella Sicilia i segni di un processo degenerativo destinato ad estendersi a tutto il sistema- Italia (vedi La palma va a Nord). Si pensi ai contributi di Silvio Perrella, Massimo Onofri, Filippo La Porta, Raffaele Manica, Andrea Cortellessa, Domenico Scarpa, per citarne solo alcuni. Resta da chiedersi chiedersi a questo punto se tanto riguardo non sia il frutto maturo del fenomeno siciliano, che riunisce un numero impressionante di scrittori in una cifra pressoché omogenea che ha come costante leit motiv il fatto di parlare della Sicilia stessa, e che ha raggiunto una soglia non più revocabile né trascurabile.
La geografia diventa un elemento che assume un particolare “capitale simbolico” e le insofferenze di provincialismo degli anni sessanta almeno qui, sembrano davvero lontane. E daltronde, se qualcosa hanno davvero insegnato gli anni novanta non è proprio a “valorizzare il territorio”; la diversità, la particolarità, non ha forse insegnato a pensare “g-local”? Il punto è anche la geografia è libero mercato? Da questo punto di vista, considerato tutti i docg e i vari presidi di muffe tradizionali, si direbbe che l’italia sia il massimo del rigore filologico, tanto che non prevede il cosiddetto “panorama freedom” e le foto delle opere architettoniche di Piano, Fuksas, Piacentini, ad esempio, dovranno essere tolte da Wikipedia… e tuttavia mi pare che tutta questa ansia di particolarismo nasconda la volontà di essere rassicurati e preservati per sempre nell'immobilità arcaica e sognante di una Vigata eterna.
Camilleri ha svecchiato la letteratura siciliana tenendo a balia nidiate di nuovi autori che adesso lo scimmiottano, ed ha risvegliato il dialetto (benché quello solo agrigentino) portandolo nella bocca anche di lettori leghisti, ma ciò avviene perchè l'archetipo del buen retiro che avvenga in Sicilia o nella Fargo dei fratelli Choen, è un ememento dall'appeal universale. In questi ultimi dieci anni il "capitale simbolico" della sicilianità è dunque salito ancora, tanto che oggi si direbbe che l'isola stia diventato un “genere letterario”, come le storie di vampiri (di sponda entrambi, Sicilia e vampiri, si trovano nel nuovo romanzo di Flavio Santi). Per scrivere questo genere ovviamente non occorre essere siciliani più di quanto occorra essere vampiri per scrivere Dracula e lo dimostra anche il Nuovomondo del non siciliano Emanuele Crialese, vero e proprio esempio di efficace ricostruzione artificiale di una realtà di appartenenza "emotiva".

21 lug 2007

Brevi consigli di lettura per l’estate: Varvello, Aloia, Santi, Arrabal, Fiori, Buffoni

Qualche segnalazione per l'estate. Tra gli esordi assoluti dell’anno segnalo i racconti di Elena Varvello primi nella classifica dei lettori del domenicale del «Sole 24 Ore» (qui potete ascoltare una sua recensione delle Città Invisibili) , quindi il romanzo d’esordio di Fabio Geda (qui il suo blog). Dopo due raccolte di racconti per Minimum Fax esordisce nel romanzo anche Ernesto Aloia con un libro dalle tematiche che potrebbero far discutere parecchio. Nella stessa collana è pubblicato anche l'ultimo romanzo del talentuoso Flavio Santi la cui opera seguo ormai da molti anni ― dai tempi di “Frasca cava gli ochi” sulla rivista «Maltese» e forse da qualche tempo prima (sue poesie le avevo lette in un libro ricevuto dalla rivista universitaria «Baretti» su cui poi pubblicammo anche un suo racconto; si parla del 1996-97...). Insomma di lui ho grandissima stima e ammirazione. Nonostante non lo conosca personalmente, di lui ho letto molto (anche le recensioni e la polemica su Quasimodo sulle pagine di «Testo a Fronte» etc…). In questo caso tuttavia Santi scrive un’opera che rispetto ad altre sue cose mi ha convinto meno. Da vedere comunque perché ritengo che tra gli scrittori-poeti-intellettuali della mia generazione sia tra i più preparati.
In primavera ho avuto modo di conoscere l’istrionico e folle Fernando Arrabal di cui consiglio le opere, poche settimane dopo nella stessa città di provincia in cui avevo conosciuto Arrabal in una tenda che puzzava di gnu un giustamente irritato Umberto Fiori ha letto alcune sue belle poesie. Di lui consiglio anche alcuni recenti saggi critici. Sempre sul versante della prosa scritta da poeti, segnalo infine il bel libro di Franco Buffoni, Più luce, padre, un testo da discutere. E per il chi non ne avesse abbastanza, ecco un Bonus Track. Buona lettura.

17 lug 2007

Il clic di mozzi e la civiltà della scrittura verticale continua

Il 26 giugno 2007 ha ripreso le pubblicazioni della storica rivista Vibrisse, con nuovi intenti. Faccio mia la proposta velleitaria di Giulio Mozzi comunicando che l'idea di Verde Memoria si situa esattamente in quella ricerca sul "campo letterario" proposta chiaramente da Mozzi, che qui riporto: "La cosa che vorrei fare con Vibrisse nei prossimi mesi, diciamo nel corso del prossimo anno, è: tentare una descrizione del campo letterario italiano contemporaneo. Si tratta di un'intenzione quanto mai velleitaria. Per "campo letterario italiano contemporaneo" intendo: l'insieme delle relazioni che sono in atto tra i soggetti che hanno che fare con la letteratura, in Italia, oggi: lettori, scrittori, editori, funzionari editoriali, agenti letterari, critici, giornalisti, tipografi, autori di programmi televisivi, librai, grossisti, promotori, insegnanti di ogni ordine e grado, vetrinisti, dirigenti di catene di librerie, eccetera. Scrivo "eccetera" perché mi sembra il caso di essere, almeno all'inizio, inclusivi piuttosto che esclusivi. [...] Le ricerche sul reale funzionamento del "campo" o "ecosistema" letterario italiano contemporaneo sono assai poche. La ragione di questa scarsità sembra evidente: non fa piacere a nessuno che si svelino le "reti di relazioni", che sono un "capitale" fondamentale per la sopravvivenza, e che tanto meglio funzionano quanto più sono inconosciute e inaccessibili. Per giungere a questa descrizione del campo letterario italiano contemporaneo (Clic), propongo di scegliere un punto di osservazione e un metodo. Il punto di osservazione è: poiché dentro il clic si entra solo e soltanto per cooptazione, il momento dell'ingresso mi sembra talmente decisivo da poter essere scelto come punto di osservazione (o, meglio, punto da osservare) [...]"
Un altro punto di partenza (oltre oltre le interviste proposte da mozzi, che lui stesso definisce "difficili" poiché è problematico stanare questi "interni") potrebbe essere una "geografia dell'avanguardia" i cui estremi lembi di dibattito a mio avviso si hanno nella violenta stroncatura all'Annuario di poesia dell'illuminato Genna (che ai tempi di Clarence ahimé stroncava anche il Cinema Naturale di Gianni Celati) che ripropone l'antica, spiacevole, asse di conflitto Milano-Roma. E poi si potrebbero rivedere epigoni di luoghi comuni ancora persistenti: la Firenze ermentica, Torino esoterica e neoorfica, Genova avanguardistica, Vicenza psicologa e bigotta, il Friuli e la frontiera, la Sicilia e il mediterraneo e così via. La persistenza di questi elementi geografici nel campo ha ancora più peso di quanto si potesse pensare. Ma il problema è sempre nella dialettica tra legittimità e consenso. Internet ha smosso un po' le carte in tavola guadagnandosi visibilità e consenso ma tutta l'accademia ancora diffida e le ragioni sono molte, dalla perdita di controllo sull'attendibiltà dell'informazione alla "sindrome da copia e incolla" e alla fobia del furto. Eppure, la "scrittura verticale senza pagine" esercita ed ha esercitato una modifica forse più violenta dell'impatto della stampa descritto nella Gutemberg Galaxy dello smilzo Mc Luhan visto ieri in Annie Hall (1977). Con la stampa la scrittura verticale senza pagine condivide una componente di fondo: l'espansione della comunicazione porta ad un radicalizzarsi delle posizioni. In certe schermate vedo il germe "protestante" dei libelli di Martin Marprelate del XVI secolo o la violenza verbosa e allusiva degli "University Wit" come Thomas Nashe, assoldati a difendere la corte o i puritani... Anche in quel caso la polemica si indirizzava su canali impensabili fuori da una civiltà a stampa. Analogamente, il discorso della Clarence di Genna e della società delle menti mi pare fu unico proprio nel suo utilizzare la libertà di un mezzo che tuttavia, oggi come allora, determina in modo incofondibile espressione e discorso. Un'informazione dislocata per un pubblico "dislocato" che autoapprende. Ci torneremo. Per ora un bocca al lupo a Mozzi.

Fumetto e letteratura, per uno sfondamento delle barriere. Eco e Zanzotto.

C’era una volta chi oziosamente si domandava se Salgari, Jack London, Stevenson, Wells o Zane Gray fossero letteratura. A costoro gli enzimi digestivi del tempo e le “misteriose fiamme” delle regine postmoderne, dagli anni trenta in qua, hanno dato una qualche risposta; lo stesso accadrà con Alan Moore e Neil Gaiman; con Craig Thompson e Art Spiegelman, per citare qualche nome a caso.
Esistono provocazioni inutili e fuori tempo massimo ― e chi ha ascoltato Accordo di Franco Mussida o ha sfogliato la Coazione a contare di Gian Pio Torricelli (Marcatre, 1968) sa cosa voglio dire ―; non è dunque una provocazione ma nemmeno acqua calda, dire che “le barriere tra letteratura e fumetto sono crollate”. Anche questo crollo infatti è frutto di una finta dialettica storica perché la distinzione tra letteratura e “paraletteratura” di fatto non ha mai convinto gli Oreste Del Buono (1923-2003) ed i tanti anonimi collezionisti, onnivori, come il matematico valdostano Demetrio Mafrica i cui volumi oggi vengono ad arricchire la biblioteca della Fondazione Sapegno. Un ulteriore passo in questa direzione è segnato dall’anfibilogia delle traiettorie di scrittori passati, per amore o per forza-denaro, dalla fiction al fumetto (il caso più noto: Tiziano Sclavi) o al contrario dei tanti autori di fiction il cui successo in termini di copie vendute è stato determinante per passare al fumetto; e parlo di Evangelisti, Pinketts, Carlotto, Danzeri, Cacucci, Lucarelli, Wu Ming 2. In queste opposte traiettorie verso la letteratura disegnata, determinate da opposte ragioni di mercato, “l’insuccesso” di Sclavi e “il successo” di Lucarelli & company, si consuma, in ciò che l’orizzonte d’attesa del mercato certifica: uno slittamento percettibile dei generi. Le generazioni passano e se nel superuomo di massa le sue analisi semiologiche del fumetto potevano parere all’avanguardia, La "misteriosa fiamma" pare veramente retrò e non nel modo previsto dall’autore, credo. Lì dal fumetto si è appreso “l’artificiale senza il sogno”. Un artificiale che, come un chiodo a espansione in un muro, va a saturare un intera memoria d’archivi prevedibili, morti.
Un verso di Zanzotto basti invece ad esemplificare come far saltare le barriere dell’espressione. viene da Gli sguardi i fatti e senhal:

- Vivo sarò la tua peste morto sarò la tua morte
- Il sempre è accoltellato è in ira
È in un fumetto in ik Ci sei?

Non so chi ci sia ancora ma da un testo così complesso ci sarebbe troppo da dire. È già l’ambiguità del titolo la dice lunga. Fino al Petrarca il senhal era nome fittizio con cui i rimatori provenzali e per imitazione quelli italiani designavano la donna amata, ma Senhal è un termine che nella storia ha assunto anche diversi significati: uno dei più emblematici, con una valenza apertamente negativa, è quello che designa un medaglione o una moneta imposti al bambino sorpreso a parlare occitano a scuola. Una specie di “scarlet letter”. Il senhal veniva messo al collo o doveva essere tenuto in mano, o addirittura fatto stringere tra i denti ed il malcapitato poteva liberarsene solo sorprendendo e denunciando un altro bambino che parlava occitano, al quale veniva passato il senhal. Questo atto discriminatorio è stato praticato per tutto l'Ottocento e fino ai primi anni di questo secolo nelle scuole della Francia Meridionale, con lo scopo di imporre la lingua francese e tali pratiche ovviamente sconfinarono anche nelle valli occitane del Piemonte. A Zanzotto la stigmate maudit di dire che “il sempre” è stato accoltellato, che è “in ira” ovvero è incazzato ma è anche nel momento in cui il lattante mette i denti; è nell’aurora di un esordio subito ripetuto e consunto, è nel delitto raffigurato nelle copertine di uno dei tanti fumetti alla Diabolik, Satanik, Cattivik etc...

L'ultimo Hernry Miller


«Nonostante tutti i sotterfugi e le menzogne, io credevo in lei. Io le credevo anche quando sapevo che mi stava mentendo. Qualunque cosa sbagliata, stupida, sleale facesse, riuscivo sempre a trovare una scusa […]; non riuscivo a dimenticare […]. Volevo vedere, e aspettavo con calma di vedere, che cosa lei si sarebbe ricordata di ricordare. Ma lei non era molto il tipo da ricordi o rievocazioni. Lei era sempre pronta ad aprire nuovi campi di esplorazione, mentre seppelliva il passato sotto cumuli di terra come si fa con una bara. Non c’era mai un domani. Era sempre ieri. E il giorno prima di ieri era un’altra storia. Mi riferisco alla sua vita con gli altri, la sua vita amorosa… In qualche modo tutta quella parte sembrava chiusa a chiave negli scantinati della sua memoria. Solo un candelotto di dinamite sarebbe riuscito ad aprirli. In fondo, era davvero importante, davvero necessario ripercorrere tutta quella storia?». Se, come disse Victor Hugo, “il bordello è il mattatoio dell’amore”, il piano bar è l’anticamera della sala da masturbazione. Ed, in anticamera, inchiodato al suo delizioso uccellino canoro, e poi insonne, nel suo appartamento, un Henry Miller ormai prossimo alla fine passò notti intere, acquerellando le sue angosce, ispirato dalla musica di Czerny e Busoni e dalle immagini di Blake e Bosch. Intrappolato, lui, nella gabbia del suo impossibile amare fuori tempo massimo una cantante giapponese dai tratti non propriamente rassicuranti ― figura di donna orientale che affianca la Michiyo Watanabe con cui Henry imparò il giapponese (tacitamente menzionata nel testo a p. 18) e Hoki Tokuda, che fu sua moglie. Nell’ultimo testo di Miller affiorano memorie da Hesse, Mann, Lawrence e trova posto persino una breve dislocazione del personaggio Moricand, protagonista di A Devil in Paradise (1961).
Pubblicato a Las Vegas all’inizio degli anni ’70, il testo è oggi disponibile per i lettori italiani grazie agli sforzi congiunti dell’intraprendete scout Martina Rinaldi e dell’agenzia letteraria di Elfriede Pexa, che in una libreria antiquaria di Philadelphia hanno rintracciato copia del manoscritto in un’edizione a tiratura limitata.
Henry Miller, Insomnia ovvero il dèmone dell’Amore, con quattordici acquerelli e riproduzione fotostatica del manoscritto, Roma, Castelvecchi, 2006, pp. 124, euro 13 (Insomnia or the Devil at Large, 1970; trad. dall’inglese di Costanza Rodotà).

14 lug 2007

Paralipomeni di individuazione dell’Io

Oggi, chi voglia afferrare il proprio tempo con il pensiero deve soffermarsi a lungo sul rapporto che intercorre tra ciò che è massimamente comune e ciò che è massimamente singolare: i versi di un poeta, le cui parole abbiano suscitato la nostra approvazione o la nostra stizza “nella misura in cui” differiscono o coincidono con le parole di coloro che hanno preso la parola prima. Ma lui differisce dagli altri poeti, costituendo un ente singolare, proprio e soltanto perché condivide con essi una “natura comune”, ossia la facoltà del linguaggio che possiede un proprio codice. La differenza è garantita da una comunità e da un codice che in qualche modo rappresentano una manifestazione dell’omogeneo. La capacità di articolare suoni significanti, requisito biologico della specie Homo sapiens non può manifestarsi altrimenti che individuandosi in una pluralità di parlanti; ma, all’inverso, tale pluralità di individui sarebbe inconcepibile senza la preliminare partecipazione di ciascuno e di tutti a quella realtà preindividuale che è, per l’appunto, la capacità di articolare suoni significanti. Lungi dall’elidersi, il Comune e il Singolare rimandano l’uno all’altro e tutto sta nel comprendere in che cosa consiste, di preciso, questo reciproco rimando.
Il Comune è forse il risultato di un’astrazione mentale o viceversa è qualcosa di realissimo indipendente dalle nostre rappresentazioni? E poi: il singolo locutore è distinto dai suoi simili perché, accanto alla comune facoltà di linguaggio, fa valere caratteristiche ulteriori, esse sì uniche e irripetibili (per esempio, un desiderio o una passione)? Oppure, al contrario, quel locutore è distinto dai suoi simili già solo perché rappresenta una modulazione peculiare della comune facoltà di linguaggio? L’individuazione avviene in virtù di qualcosa che si addiziona al Comune o ha luogo in seno a quest’ultimo ? Ecco alcuni dei dilemmi che attanagliano, oggi più che mai, la discussione sul principium individuationis del poeta nella società attuale. E’ quasi superfluo osservare la posta in palio, in questa discussione: per pensare adeguatamente la “natura comune” (o preindividuale) da cui discende l’individuo individuato, occorre rinunciare, forse, al principio di identità e a quello del terzo escluso. Metafisica: alla luce del nesso Comune-Singolare, è lecito postulare l’esistenza di una intersoggettività preliminare, anteriore alla stessa formazione di soggetti distinti. La mente umana, a differenza di quanto suggerisce il solipsismo metodologico delle scienze cognitive, è originariamente pubblica o collettiva. La politica: dal modo di intendere il processo di individuazione dipende in larga misura la consistenza del concetto di “moltitudine”. Quest’ultima è una rete di singolarità che, invece di convergere nell’unità posticcia dello Stato, perdurano come tali proprio perché fanno valere sempre di nuovo, nelle forme di vita e nello spaziotempo della produzione sociale, la realtà preindividuale che hanno alle spalle, ossia il Comune da cui derivano.
Gilbert Simondon ha polemizzato con il modo consueto di intendere il principium individuationis, e soprattutto con la sua riduzione a questione circoscritta, priva di vere conseguenze sull’ontologia generale. La riflessione di Simondon sulla “realtà preindividuale”, al pari di ogni movimento del pensiero che determini una situazione inedita, consente di leggere altrimenti certi autori del passato, ovvero crea i propri predecessori. Le tesi di Simondon recensite da Deleuze tentano dunque di mettere a fuoco un rapporto teoretico per decifrare il rapporto Comune-Singolare e, quindi, il modo di essere della moltitudine contemporanea. Delle obiezioni di Bernard Stiegle a proposito, diremo un'altra volta. Intanto, prepariamoci.
Su Simondon, vedi anche L’individuation psychique et collective (Aubier, Paris 1989), e la monografia di Muriel Combes, Simondon. Individu et collectivité (Puf, Paris 1999).

Belén Gopegui: una narratrice di razza.

Sempre per restare in ambito ispanofono, segnalo brevemente le opere di Belén Gopegui, nata a Madrid nel 1963. Nel 1993 ha pubblicato il suo primo romanzo La escala de los mapas (Premio Tigre Juan e Premio Iberoamericano per l’opera prima). Nel 1998 pubblica La conquista del aire (1998) trasposto al cinema per la regia di Gerardo Herrero come Las razones de mis amigos (2000). Nel 2001 ha avuto uno straordinario successo di pubblico e critica con il romanzo Lo real («il miglior libro in castigliano apparso nel 2002», secondo Sebastiàn Edwards) e il suo terzo libro El lado frío de la almohada è stato uno dei maggiori best sellers di narrativa in Spagna oltre che «un romanzo politicamente scorretto» che ha suscitato un intenso dibattito. Forse merita una sguardo.

Carlos Rodriguez: Lo que asesina al limpio

La obra de Carlos Rodríguez hay que ubicarla siempre en
el lugar más distante concebible con respecto a las tendencias escriturales de
su tiempo. Ajeno a las modas estéticas, Rodríguez conforma un universo textual
marcado por la constante tensión entre lo que el poeta ve del mundo y lo que
éste le devuelve a través de las formas más insólitas de la percepción.


Dopo la poesia di Liliane Wouters, una delle migliori poetesse del Belgio, un testo di uno dei migliori poeti della Repubblica Dominicana, prematuramente scomparso a New York: si tratta di Carlos Rodríguez, autore della raccolta El West End Bar y otros poemas y Volutas de invierno, inedita in Italia, che consiglio caldamente ecco de Carlos Rodríguez, la Dirección General de la Feria del Libro da un importante paso hacia la difusión de una de las voces más singulares de la poesía dominicana. León Félix Batista, il critico prefatore del volume sottolinea della sua poesia "el privilegio de profunda relevancia a los hechos cotidianos": «La poesía de Rodríguez se decanta específicamente por la lectura irónica de la banalidad urbana. Uno de los efectos de esta operación parecería ser la construcción de una imagen precisa del poeta como cronista de las prácticas de la vida cotidiana en la maraña de la ciudad. En un espacio literario como el dominicano, en donde prima la marca de una poesía fácil, embaucadora y sensiblera, ¿se le puede pedir más a un poeta?».

Lo que asesina al limpio

Lo que asesina al limpio,
al pretendidamente limpio con solapas grandes
no es la cámara de gas del homicida.
Lo que tumba no es el viento sucio
que sopló en la tarde (o),
la novedad de un paso desplazándose en la cuerda.
Lo que asalta y enloquece verdaderamente,
es la línea sola del equilibrista,
su lugar-desprevención (carrera a solas) o lo que es
la metafísica y lo opuesto.
La ciudad en lo alto señala el rumbo en los relojes.
En la tarde grande (auténtica)
vístase el poeta.
En esa misma habitación se descompone,
se horroriza.

12 lug 2007

Levi a Torino: Ossola vs Belpoliti e il bel libro di Cavaglion


Nell’incontro dedicato a Primo Levi e i libri della dignità umana, al Salone del libro di Torino sono seduto stretto vicino ad Andrea Cortellessa che poi cortesemente alzandosi riassume i termini del dibattito ad una giovane giornalista un po’ confusa dal non semplice dibattito, che ha luogo nell’imponente Sala 500 del Lingotto. Parlano Walter Barberis, poi Carlo Ossola, Marco Belpoliti, Enzo Bianchi e Giovanni Conso. Ossola leggendo l’antologia di Levi La ricerca delle radici parte dal noto schema del libro che va "da Giobbe ai Buchi Neri" e parla delle due salvazioni: “il riso” e “il capire” e poi di testi che certificano la “statura dell’uomo”, Marco Polo e Conrad in particolare. Argomenta poi con finezza che alcune letture hanno banalizzato la “banalità del male” di Hanna Ardent facendo di Eichmann quasi un inveramento della cupa idea luterana per cui l’uomo caduto non può salvarsi, il male radicale etc… Il primato va dunque alla senso profondo della pietas leviana. Belpoliti che esordisce dicendo neanche troppo velatamente che quella di Ossola è un’icona da benpensante, sostiene che occorre andare a ben altre radici. Bisogna cioè risalire e ripercorrere le tante contraddizioni di Levi, evidenziando le discontinuità di un percorso tutt’altro che lineare nel suo sviluppo. Per quanto ricordo gli appoggi testuali di Belpoliti mi parvero meno forti di quelli del più fascinoso e canuto Ossola, ma la sua retorica meno azzimata e formale parve riscuotere maggiiori consensi. Il riferimento di Belpoliti non può non rimandare a quella fine discretamente taciuta da Ossola; quella fine che pare scardinare i presupposti della caparbia “conservazione sottrattiva ” che Levi praticò per tutta la vita… Levi continua a porre interrogativi radicali e inquietanti ponendosi come un “campo ad alta tensione simbolica” e tante sono le cose ancora da leggere nello specchio cangiante di quell’opera: si possono operare macro ingrandimenti su un particolare, come fa ottimamente Alberto Cavaglion nel suo ultimo libro, oppure, partendo da una considerazione di “generi letterari” e di intertestualità, provare a tenere insieme socialità e struttura di un testo, come ho tentato di fare in un convegno tenuto a Trento questa primavera di cui presto potrete leggere il testo.

11 lug 2007

esperimenti curiosi e quesiti immutabili: le uova per Gillot

un bel modo per sapere se ci reicarna perddavvero è inventare aforsimi e controllare se esistono su Google. io ad esempio una notte ho porvato questo ed invito a ripetere l'experimento: magari darà risultati più felici. L'aforisma da me coniato tra virgolette, ricerca precisa, è "La domanda è l'ortodossia del cuore" e non dà risultati. senza le virgolette. I primi venti risultati hanno a che fare con la Chiesa a vario titolo. Se al posto di cuore metto "La domanda è l'ortodossia della mente "esce fuori Bernard Russel e l'ateismo. Mente e cuore, cari Pascal e Cartesio. Anche gli algoritmi di calcolo non calcolano che il reale statistico o casuale delle risposte che la storia produce. Siamo ancora a questo punto. Alla solita obiezione... ancora alle uova di Gillot di Beckett tradotte in italiano da Wilcok: "queste uova puzzano di fresco..."

Decoro e realtà

L’idea di un falso decoro, di una voce che non appartiene, di una forma che non rappresenta in maniera adeguata, è una costante di tutto il XX secolo. Tanto che "l’inverso del decoro" ha potuto diventare quasi sinonimo di “realtà”. Quella di Liliane Wouters è una presa di distanza dal decoro come armonia del mondo a favore del désaccord che è proprio di una voce reale, viva, autentica. È un problema formale ed emotivo insieme.
Nella modernità il concetto classico di decoro è forse quello che più ha subito le conseguenze di quella “fine delle convenzioni a favore del realismo” a suo tempo individuata da T. S. Eliot e per avere un’idea di quanto avanti si sia spinto questo processo si può leggere quanto scrive Michal Houellebecq nel suo “méthode” del 1991:

Creusez les sujets dont personne ne veut entendre parler. L’envers du décor. Insistez sur la maladie, l’agonie, la laideur. Parlez de la mort, et de l’oubli. De la jalousie, de l’indifférence, de la frustration, de l’absence d’amour. Soyez abjects, vous serez vrais».
M. Houellebecq, Rester Vivant – méthode, La Différence, 1991 (rist. insieme a La poursuite du bonheur, Paris, Flammarion, 1997, p. 27).

Negli anni Cinquanta e Sessanta una certa critica cattolica reazionaria, spiritualista e filomonarchica, in nome del decoro amava scagliarsi contro il “crudo realismo” di certe opere, film e romanzi soprattutto. Un esempio potrebbe aversi operando uno spoglio della critica cinematografica dell’«Osservatore Romano» tra il 1950 e il 1989. Houellebecq l’autore che oggi parrebbe più lontano da tali posizioni pare però condividere, in merito al rapporto su decoro e realtà, una posizione più vicina al Vaticano che alla nostra Wouters. L’opposto del decoro non è il disaccordo ma la verità e la realtà, “nuda e cruda”, anche nella sua abiezione. Houellebecq nel suo Metodo per restare vivi, inedito in Italia (chi si ricorda del geniale Manuale di autodistruzione di Bordini?) sostiene: “scrivete l’inverso del decoro e sarete veri”. Illusione. Non pia forse, ma illusione sempre. Montaigne si interrogava sulla “tirannia del costume”; oggi, con altrettanto pervasiva ed invisibile pregnanza possiamo interrogarci sulla “tirannia del decoro” che si manifesta a noi in forma di Comunicazione/Informazione e Tecnica. Oggi Comunicazione e Tecnica impongono il “luogo del discorso”. E il “luogo del discorso” è la base ineludibile della legittimità. “Il mezzo è il messaggio” diceva McLuhan e milioni dopo di lui, ma forse non è più così (ed alcuni businessmen lo hanno anche teorizzato p. es. Augusto Preta, Economia dei contenuti. L’industria dei media e la rivoluzione digitale). Ma il decoro non è solo il mezzo e non è neanche il messaggio. Il “tiranno-decoro” è l’opportunità. Il luogo e il tempo, l’occasione giusta perché l’impossibile accada.

Liliane Wouters, Faux décors

C’est le premier jour de son grand voyage,
Il ouvre les yeux dans un autre univers,
Il a fait le tour de tous nos mirages,
Il voit bien mieux le monde à l’envers,
Il a perdu corps, c’est pour prendre espace
Il a trouvé mort mais vit Dieu sait où,
Adieu faux décors, l’esprit cherche place
Dans le désaccord de ce qui fut nous.

da Oscarine et les Tournesols

I dottori di MASH e il 27 di Bovary: Zoilo e il chiarissimo Giusti

Torino. Via Sant’Ottavio, Palazzo Nuovo. In quell’hangar in odore di alluminio il cui nome mi pareva una presa per il culo all’inizio del 2000 a ventiquattro anni presi la laurea quadriennale in Letteratura Italiana. Allora non c’era ancora il 3+2 con il casino dei crediti e dati venti esami stop. Io dopo i venti esami scelsi di laurearmi in letteratura italiana. Liscio liscio. Liscio troppo direi. Sì perché all’Università tutti quelli che studiavano un minimo poi andavano bene e agli esami mietere trenta con un po’ di passione era il minimo che potessi chiedere alla mia coscienza, ben sapendo che moltissimi altri facevano lo stesso. Quando tre anni dopo la laurea mi capitò di essere, come si dice, “dall’altra parte”, mi parve che le cose andassero anche meglio. Una ragazza mi disse di aver letto due volte Madame Bovary, uno dei testi d’esame per Letterature Comparate. Disse che la prima volta che lo aveva letto a sedici anni la signora Bovary le era sembrata un tipo profondo; questa seconda volta, “una sciacquetta”.
“Si vede che sei cresciuta” risposi. 27.
Interrogai quella sola volta, l’unica che mi chiamarono mentre ero lontano da Torino, a Follonica, con un’amica. “Pronto è lei?” “Si?” Lo sa che ci sono gli esami?” “No” “Guglieri e Lombardi non ci sono, venga lei”. Non mi mossi più da Torino nei seguenti tre anni. Interrogai solo quell’arroventato pomeriggio di Luglio in cui diedi 27 a chi aveva interrotto il mio idillio di Follonica facendomi fare sei ore di treno per dirmi che Madame Bovary era una sciaquetta.
In ogni caso all’inizio del 2000 in quell’hangar mi laureai e per laurearmi dovetti inoltrare domanda al “Chiar.mo” preside della facoltà di lettere e filosofia e usare così per la prima volta in vita la parola “chiarissimo” riferendolo a persona e per di più in forma orribilmente scorciata. Mai avrei pensato di scrivere in qualcosa di ufficiale, di stampato, di mio la parola “chiarissimo” eppure lo stavo facendo e “qualcosa non va”, mi dicevo, “pare anche questa una presa in giro”. Tutti gli scrittori di un qualche valore non disdegnavano di gettare fango sull’accademia, sull’università, come se il loro successo avesse covato in un rancore fatto di volontà di rivalsa, eccetera eccetera, eppure io, all’università non ci volevo male… però anche gli autori che studi solo lì parevano dire il contrario di quello che si faceva nell’unico posto che mi pareva delegato almeno a celebrarne se non la memoria, almeno la storia. E poi infondo anch’io avevo paura di diventare un pettegolo e copione, uno di quelli cui parla Giusti in una sua poesia del 1845 intitolata appunto Contro un letterato pettegolo e copista e che comincia “O chiarissimo ciuco”

O chiarissimo ciuco
O cranio parasito
All’erudita greppia
incarognito;
Tu del corvello eunuco
All’anime bennate
Palesi la virtù
colle pedate.
Somigli uno scaffale
Di libri a un tempo idropico e
digiuno,
Grave di tutti, inteso di nessuno;
O meglio un arsenale
Ove il
sapere, in preda alle tignole,
Non serba altro di sé che le parole.
Poiché
sfacciatamente
Copri de’ panni altrui l’anima nuda,
Scimia di forti
ingegni e Zoilo e Giuda;
Smetti, o zucca impotente,
Di prenderti altra
briga;
Strascica l’ostro sulla falsariga.

Ben conscio del veto, sulla falsariga del modello prestampato, apposi tuttavia la "chiarissima richiesta" che fu benignamente accolta ed eccoci qui. Laureati. Testa nella mangiatoia dei companions (la greppia) e pistone che non pompa più la musa (corvello); pronti a seguir la falsariga del primo debole vento mediterraneo (ostro). "Banderuolicciole", leggere leggere. Dottori. Non chiarissimi forse, non ancora così ridicoli, ma con un titolo, altrettanto buffo. Piacere, dottor Céline, e poi come in quella scena di M.A.S.H. dove tutti i dottori si danno la mano dicendosi “dottore”, “dottore”, “dottore” e così via… Chi fosse il “chiarissimo asino” della poesia che, come si dice, “eccitò la musa del Giusti”, non si sa «ma di letterati pettegoli e copisti non ci fu mai penuria in alcun tempo». Dare del “chiarissimo” ad uno per Giusti equivaleva a insultarlo e il poeta si arrabbiava molto se lo leggeva prima del suo nome in una lettera a lui indirizzata. All’Amico Matteo Trenta scriveva già cinque anni prima del testo in questione, nel 1840, che “chiarissimo” era un superlativo

che tutti danno e tutti vogliono a tutto pasto, tanto che oramai bisognerà dire
nelle mattutine e nelle vespertino orazioni (o correggere anco nelle preghiere
della Chiesa) a peste, fame et clarissimo, libera nos Domine. Non so se sappiate
che in quest’altro Congresso sarà proposto dai professori di fisica di dar
piuttosto del Diafano o, più italianamente parlando, del Trasparente. A me
piacerebbe molto potere scrivere: Al Diafanissimo signor, ecc. Al Molto
Trasparente Professore, ecc.
Il 31 dicembre 1844 Giusti scrisse anche una cicalata in forma di lettera, stampata dalla «Rivista di Firenze» col titolo: Il capitolo delle debolezze umane: sull’uso del Chiarissimo. Leggiamo: «Il popolo felicissimo nei suoi paragoni, quando parla d’una cosa limpida o d’una verità manifesta, è solito dire: chiara come l’acqua, chiara come l’ambra, chiara come la luce del sole. Ma il sole, sebbene sia popolarissimo, credo che nella sua dignità debba indispettirsi d’essere messo in un fascio e quasi alla pari con l’acqua e con l’ambra, come il vero sapiente deve pigliarsela con tutti coloro che te l’annaffiano in branco coll’asperges del Chiarissimo.» E propone «di pesare bene il merito di colui cui si scrive, e dare quindi all’uno di Limpido, all’altro di Lucido, a questo di Trasparente, a quello di Folgorante; e poi di Molto sfavillante, di Scintillantissimo, e anco d’Opaco e di Nebuloso secondo il bisogno».
Sono passati 160 anni. Alla faccia che la satira è legata ai tempi in cui si scrive. Ad aver segnato il passo semmai è il linguaggio con cui è espressa per cui non sono più familiari i molti termini che fanno suonare vecchio il timbro di Giusti, forzata la sua gabbia di rime, poco chiara la funzione di quel nome astruso “Zoilo” accostato a Giuda Iscariota, il traditore per antonomasia. Questa poesia non si legge bene, non è moderna, ci vogliono le note, eccetera. È per non cadere nella spiacevole pedanteria di quell’arsenale linguistico carico di retorica che all’Università poeti come Giusti ricevono, giustamente, un attenzione marginale se non nulla (io nel mio corso di studi non ci sono mai incappato). D’altronde è proprio per non essere tacciati di arretratezza che si è mandato in pensione tutto il quest’armamentario di “greppie” “tignole” e “corvelli” dopo che per l’ultima volta Pascoli ce ne mostrò in nuova luce il fascino, come un balocco sinistro. Tra le critiche che si potrebbero muovere a Giusti infine, l’accostamento indiscriminato di un personaggio classico come Zolio, il mitico critico di Omero che si guadagnò l’appellativo di Homeromastix, e il traditore dei Vangeli. Anche questa leggerezza gioca a sfavore di una composizione che non riesce a sollevare la propria riflessione al di là di una piacevole goliardia. È questo il romanticismo italiano, dei romantegh. Questo fu per Leopardi e questo fu soprattutto per Ungaretti suo lettore in chiave “modernista”: è questa una poesia che crede per innocenza alla rivoluzione metrica e sociale, per poi ricadere in una “maniera”; in una serie ininterrotta di “retoriche dominanti” che suppliscono la retorica classica nella sua funzione: la techné classica si coniuga alla dianoia moderna. Dimenticare la funzione tecnica della retorica a favore della poetica che è riflessione e pensiero, ha portato all’equivoco rivoluzionario della poetic diction romantica. Questo, in sostanza ci dice Ungaretti (le cui pagine critiche sono funzionali alla comprensione della sua opera quanto quelle di Eliot e Pound) è il limite dei romantici, dei poco amati Manzoni, Whitman e Hugo, in primis. Eppure come negare la buona fede di Giusti? Come negare che il suo lamento contro i “chiarissimi ciuchi” fosse legittimo, vero, attivo, ancora agente? Non ha forse Giusti la qualità della grande poesia, ovvero la memorabilità, ma bisogna per questo continuare a sfottere lui come antiquato ed usare “a bella posta” quello stesso desueto epiteto che, per ragioni presumo nobilissime, il caro Giusti voleva veder scomparire dalla sua vista? Quando una parola cade in disuso e muore, muore con lei parte del simbolico che ha caratterizzato… probabilmente Giusti voleva sbarazzarsi della retriva pompa della vanagloria, o di quella postura tipica degli accademici suoi professori, amici o colleghi; in ogni caso, chissà che non si possa approfittare ancora della stoccata del sileno?

10 lug 2007

Restaurazione o Speranza? Gianni D'Elia, Ernst Bloch, Tonino Guerra, Ratzinger, Boy George...

Nel recente festival della poesia di Parma al Punto Einaudi sabato per l'aperitivo arriva a sorpresa Gianni D'Elia che legge dal suo ultimo libro le storie dei suoi Trovatori. Dice che la sua antipatia per Ratzinger risale a quando molti anni fa lesse le sue critiche ad un filosofo per altri versi molto amato dalla cultura cattolica italiana degli anni sessanta: il filosofo marxista Ernst Bloch (1885-1977)
Il "principio speranza" come "ontologia del non ancora esistente" è la figura speculativa centrale della sua filosofia. Secondo Bloch una giusta filosofia non deve mirare a studiare ciò che è ma a preparare ciò che ancora non è. Dietro ci sta "l'impensato che bisogna pensare di Heidegger" ma nel suo dire che "il mondo veramente degno di essere vissuto dev'essere ancora costruito" c'è un indubbio potenziale eversivo. Il compito dell'uomo creativo è dunque quello di creare il mondo giusto che ancora non esiste e per questo elevato compito la filosofia deve svolgere una funzione decisiva: essa è il laboratorio della speranza, l'anticipazione del mondo di domani nel pensiero, anticipazione di un mondo ragionevole e umano. Un mondo che non più formatosi mediante il caso, ma che può essere pensato e realizzato . Nel contesto storico degli anni Sessanta-Settanta che smotta sul nostro presente mi pare che si confondano la speranza che si identifica con l'elpis paolina e l'ottimismo di Tonino Guerra che si becca la cagata in faccia. Per Bloch (e per alcuni dei tanti intellettuali che lo seguirono, cattolici (come Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Lorenzo Milani, Mario Gozzini) e laici (come Lelio Basso), l'ottimismo fu forma ed espressione della fede nella storia, ed è perciò doveroso per una persona che vuole servire alla liberazione, l'evocazione rivoluzionaria del mondo nuovo e dell'uomo nuovo. Fu questa infondo l'eredità illuminista ereditata dal romantico Hugo nella sua Prefazione a Hernani e credo che lo stesso discorso valga anche per i "miserabili" cattolici Coccolini e Zaccuri ospitati da Giuseppe Genna.
La speranza è perciò la virtù di un'ontologia di lotta, la forza dinamica della marcia verso l'utopia. Leggendo Bloch, Ratzinger interpreta la sua speranza come ottimismo e come fiducia nel progresso e probabilmente calca un po' troppo la mano su questo punto (visto che ben nota è la critica di Bloch alla linearità del progresso). Secondo Ratzinger la "virtù teologica" di un "Dio nuovo" e di una "nuova religione" è la virtù di una storia divinizzata. Una "storia" di Dio, dunque, ma del grande Dio delle ideologie moderne e della loro promessa. Questa promessa è l'utopia, da realizzarsi per mezzo della "rivoluzione", che per sua parte rappresenta una specie di divinità mitica. Ratzinger in fin dei conti attacca la divinità illusoria della storia che pone dio al suo servizio. Peraltro chi non crede nelle "magnifiche sorti umane e progressive" non è mai visto di buon occhio, e tuttavia non potendo fare del pontefice un nichilista leopardiano, questo suo pessimismo, in un dibattito della metà degli anni Ottanta attorno al suo Rapporto sulla fede, lo rese un conservatore reazionario.
Allora, alla metà degli anni Ottanta l'attenzione dei suoi critici si catalizzò attorno ad una parola che in questi ultimi due anni si è diffusa nel mondo delle lettere e della rete "Restaurazione". (si veda l'articolo di Antonio Moresco dell'aprile 2005 nella prima Nazione Indiana e ricordi, chi c'era, l'incontro di Torino del maggio, in cui lesse il Cantico di San Francesco e abbandonò il gruppo assieme ad altri membri fondatori). Di questa restaurazione eccone una radice appena sepolta sotto due dita di polvere storica, al tempo che Boy George era una star internazionale e non un Dj al Bajda di Noli. Di tutto questo pare che a D'Elia non importi moltissimo, e il suo accenno al pontifex conta meno di una poesia attorno al fuoco, meno delle voci che parlano in un mare di tela azzurra, meno dei muratori che lavorano sulle impalcature fuori della sua casa di Pesaro. La restaurazione pare non l'abbia sfiorato e, non me ne voglia, rispetto all'apetura a più voci dei Trovatori, mi pare si trovasse più a suo agio in una "bassa stagione".