23 ago 2007

Badiou, la Metapolitica, Il secolo, Achmed. Un primo sguardo

Alain Badiou accusa: “Lo stato non pensa”. Franco Buffoni nel dialogo-romanzo già recensito gli risponde: “lo stato non deve pensare”. In Badiou il significato di concetti come politica, democrazia, stato, sono qualcosa di molto particolare. Lo stato, come la vera politica per Alain Badiou o è singolare o non è. E qui si fanno strada gli aspetti anche più appariscenti e letterariamente interessanti del suo pensiero che la scorsa primavera ho affrontato brevemente leggendo alcuni suoi testi e appocciando alcune sue questioni tra cui le domande: “Lenin è o non è il prosecutore di Marx, Mao è o non è il prosecutore di Lenin, il Termidoro è o non è la Rivoluzione francese?” Badiou non nutre dubbi: le sequenze politiche non mettono mai capo a scansioni omogenee e continue, sono sempre affette da una discontinuità radicale. È lo stesso tema che su un altro terreno Badiou ha posto a proposito di San Paolo: che rapporto ha Paolo con Gesù? Non è forse avvicinabile, dice Badiou in Saint Paul. La fondation de l’universalisme (1997) al rapporto che Lenin intrattiene con Marx? È la stessa domanda, che Gramsci si poneva nei suoi Quaderni del Carcere, ma Badiou la risolve in maniera opposta, mettendo in rilievo, cioè, la funzione inaugurale di San Paolo, e così “salvandolo”.
Badiou ha orrore della democrazia mercantile, la democrazia elettorale, quella che si esplica con un voto elettorale che è come scegliere al mercato. In questo modo, la politica, la democrazia e l’eguaglianza non sono nient’altro che pure appendici dello Stato, forme di manifestazione di quella figura che sopprime il pensiero collettivo nell’Evento che è lo Stato parlamentare. C’è un altro modo, invece, per ricongiungere democrazia e eguaglianza ridando nel contempo significato ad entrambi i concetti: si tratta di intendere la democrazia come pura esposizione del collettivo sulla scena pubblica; un’ esposizione che non tollera che si applichino ad esso prescrizioni particolari, vale a dire enunciati non egualitari. Insomma, per Badiou la democrazia è egualitaria nel suo senso più profondo proprio perché permette di sfuggire alle codificazioni particolaristiche cui è costretto a ricorrere lo Stato come entità. In Metapolitica (Napoli, Cronopio, 2001) egli propone la dismissione delle categorie di “immigrato”, “arabo”, “francese”, in quanto parole che «rinviano necessariamente la politica allo Stato e lo Stato stesso nella sua funzione più essenziale e più bassa: il novero non egualitario degli uomini» (ivi, p. 110). Di questo passo si arriva anche alle ragioni della soppressione del nome, all’anonimato come garanzia di difesa e presa di posizione politica. E tuttavia penso che dovrà passare ancora un bel pezzo perché “Uomo bianco sfruttatore” venga percepito come un insulto razzista sanzionabile e non come una verità storica. Penso dunque con inquietudine al bastone di Achmed puntato contro gli spettatori, alle conseguenze estetiche del trascurare la forza degli archetipi occidentali, ai recenti problemi legati al padiglione africano, e non solo, della Biennale di Storr; problemi legati al fatto di pensare che non abbiamo altro che la storia. La storia, l’impresentabile curriculum del mondo, non va confusa con le sue bellissime e misteriose rovine. L’arte si vuole storia dopo le ubriacature formali e decostruzioniste, ma Pascal e Pirandello, per motivi differenti, se la riderebbero. Il primo screditando la storia con la solita questione del naso di Cleopatra, il secondo opponendogli una più efficace storia di maschere nude. Badiou parla di stato come evento richiamando l’Heidegger “timpaneggiato” in L'être et l'événement (1988) ma non lo cita direttamente e, anche se non lo dice, mi pare di capire che salvi S. Paolo infondo proprio in nome della maschera. Penso allora ad Achmed il filosofo (Genova, Costa e Nolan, 1992) come ad un epigono di Ubu passato per Beckett - ma qualche tratto è davvero bello come quello su che cos’è un “bel falso allarme”(p. 34-37. Mi stupisce però che poco si noti dell’ironica forse involontaria nostalgia che suscita tutta questa messinscena di maschere. Eppure in Il secolo (Milano, Feltrinelli, 2006) Badiou ha scritto cose pregevoli anche su Pirandello… ma forse la coscienza della maschera, che così bene ha agito in lui, non lo logora perché il tempo si rinnova e perché, oltre il siciliano, nel suo teatro c’è molto di Brecht. Ma qualcosa del suo pensiero e del suo teatro, o meglio del rapporto che trascorre tra i due, lo devo ancora definire, e mi disturba. Da meditare e leggere ancora.

Nori vs. Ammaniti sulle metafore. Critica e vivente (ma anche Gualtieri, O’Connor, Hotakainen, Morena, Michele, mia sorella…)


Tre flash dall’estate. Una notte di luglio con guida apparentemente spericolata ho condotto a casa Morena, una giovanissima costumista teatrale sottopagata che gira l’Italia a cucire spendidi vestiti. Dopo uno o due punch che forse erano rum e cola avevamo parlato del comune apprezzamento per la poesia di Mariangela Gualtieri e del teatro Valdoca che lei aveva visto dalle sue parti e forse ci aveva anche lavorato, lassù, tra i laghi. Avevamo letto qualcosa dalla sua copia di Fuoco Centrale e poi cambiando discorso mi aveva detto che cercava il testo sullo scrivere di Flannery O’Connor. Io lo trovo il giorno dopo nella libreria sotto casa, a Milano, in via Cesare da Sesto. Alla fine del mese in spiaggia mia sorella dopo anni di letture dedite a una notevole quantità di best sellers americani, da un po’ di anni legge e apprezza Ammaniti che quest’anno vince lo strega e lei è contenta. Io gli dico che recensivo Fango in prima edizione per la rivista universitaria un bel po’ di anni fa e provo un discorso teorico, ma pare comunque abbia vinto lei. Oggi invece a fine agosto mi scrive Michele, un amico che in primavera mi ospitò a Trento in occasione di un convegno su Primo Levi; mi parla di Paolo Nori. Stà leggendo tutto quello che trova di suo dopo Noi Farem Vendetta, romanzo storico che, passata la breve stagione flamboyant della working novel― e pensando al prossimo libro di Antonio Scurati ― potrebbe essere la nuova tendenza del triennio. Gli dico che di Nori conosco poco e come in molti altri casi mi sono fermato ai primi due libri pre-Einaudi, ovvero all’ormai consolidata vicenda di Learco.
Ma di strada nel frattempo Nori ne ha fatta. E tanta. Senza ragione letta la mail riprendo in mano l’edizione del Cielo dei Violenti dei miei genitori, letta molti anni fa e mi convinco che la letteratura intreccia le persone viventi che leggono. Leggere significa diventare parte dell’intreccio grande, «come gocce dell’Oceano, come voti». Queste metafore non a caso introducono il discorso di cui si parla oggi: al solito, critica e vivente. E caso, appunto. Dal sito dell’infaticabile Rossano Astremo riporto l’articolo di Paolo Nori Colpi di tuono e lezioni di sguardo (da «Il Manifesto»,13 gennaio 2007) che spiega l’intreccio dei casi di cui sopra:
«Mi sembra che il modo migliore per dare un'idea del romanzo Colpi al cuore, sottotitolo Come fu girato il padrino, del finlandese Kari Hotakainen (Iperborea 2006, pp. 353, euro 16, traduzione di Tullia Baldassarri Höger Von Högersthal), che ho letto recentemente, sia paragonare l’uso delle sue metafore con quelle del romanzo di Niccolò Ammaniti Come Dio Comanda (Mondadori 2006, pp. 496, euro 19), che ho letto subito dopo. Fare proprio due elenchi. In Ammaniti: «Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine» (p. 7). «Ci fu uno scoppio assordante, e la zuppiera si disintegrò come se fosse stata colpita da un Cruise e rigatoni, schizzi di ragù e pezzi di plastica si sparsero per un raggio di dieci metri» (p. 102). «Dopo mangiato i tre rimasero in coma sul divano» (p. 103). «Ora che era arrivato il grande momento si sentiva sereno come un samurai prima della battaglia» (p. 187). «Si trascinò attraverso l'appartamento in cui sembravano esser passati i lanzichenecchi» (p. 281). «Era completamente zuppo di sudore e il piumino d'oca gli pesava addosso come se fosse sepolto sotto un quintale di terra» (p. 365). «Crollò sul divano sofferente e cominciò a lagnarsi come se gli stessero facendo una rettoscopia» (p. 398). «Il cancro se lo stava mangiando, proprio come una serpe si mangia un uovo» (p. 403). «E lei, a quel punto, come un capretto, un Bambi o quel diavolo che era, cominciò ad agitarsi, a urlare, a dimenarsi, a farfugliare» (p. 429). «Dovevano avere una sessantina d'anni. Una era alta e affilata come una mantide religiosa e l'altra era piccola e verde come un goblin. Il goblin si trascinava dietro un quadrupede che sembrava un diavolo della Tasmania» (p. 439). «Aveva visto i gabbiani volteggiare come avvoltoi che hanno puntato una bestia morta» (p. 446). «Poggiò una mano sul cofano come se fosse stremato da una lunga maratona» (p. 455). «Girò la testa verso la televisione con la velocità di una scimmia da laboratorio sotto oppio» (p. 477).
In Hotakainen: «Gli uomini sono fatti di carta, di acciaio non ce ne sono mai stati» (p. 177). «Coppola si sentiva come uno scolaretto tenuto per mano a cui viene spiegato per la prima volta come si monta un modellino» (p. 190). «Sonny era emozionato, sopra le righe, come una pustola che si irrita al minimo contatto» (p. 216). «L'uomo tenta di chiamare i figli e i nipoti, e la sua voce cigola come la sedia su cui è seduto» (p. 262). «L'uomo aveva replicato che se nel film c'era quella musica e c'erano anche dei massacri sarebbe andato a vederlo più che volentieri e ci avrebbe portato anche il cognato, che non è un patito di film d'azione ma più un tipo da pesca sul ghiaccio» (p. 264). «Per quarant'anni Keränen era sempre riuscito ad andare in bagno quando gli scappava, ora si sentiva come se entrambi i bisognini stessero per finirgli nei pantaloni senza il permesso del legittimo proprietario» (p. 269). «Le donne sono creature indomabili. Sono elettricità e acqua» (p. 281). «Laatikainen le sembrava una foca pronta a tornare alla sua vita originaria sulle rive del Saimaa. Dal naso e dalle orecchie gli spuntavano i peli, e dalla camicia sbottonata compariva un ciuffo di lanugine grigiastra. A parte il reddito, non vedeva altro che lo distinguesse da una foca» (pp. 288-9). «Il film mi piacque, anche se era fatto male. Brando era il migliore, bisognava ammetterlo. Che sia o meno un brav’uomo, recitare sa recitare. Il suo Vito Corleone era come mia nonna, una persona fragile che dice a bassa voce il fatto suo. La nonna passava le ore sulla sedia a dondolo in soggiorno a rammendare le reti da pesca del nonno. La sedia cigolava, e dalla sua bocca uscivano vecchi proverbi. Non erano regole di vita, erano colpi di tuono» (p. 344).
Adesso, a parte le foche, è singolare che l'esperienza di un mio quasi coetaneo finlandese mi sia più familiare dell'esperienza di un mio quasi coetaneo italiano.
A me sotto i piedi non si è mai spalancata una voragine, non ho esperienza diretta di qualcosa disintegrato da un Cruise, non ho mai visto una persona in coma, né un samurai prima della battaglia, né un luogo nel quale erano passati i lanzichenecchi (né un lanzichenecco), non son mai stato sepolto sotto un quintale di terra, non mi hanno mai fatto una rettoscopia, non ho mai visto serpi che mangiano un uovo, né un capretto, un Bambi o quel diavolo che era agitarsi, urlare, dimenarsi, farfugliare. Non ricordo di aver visto una mantide religiosa e non ho idea di cosa sai un goblin, e tantomeno un diavolo della Tasmania, non ho memoria di avvoltoi che puntano una bestia morta, non ho mai fatto una lunga maratona (neanche una breve), non ho idea della velocità con cui gira la testa di una scimmia sotto oppio.
La carta, i modellini, le pustole, il cigolio delle sedie, la pesca, i bisognini, l'elettricità, l'acqua, le conosco. Le foche poco, ma avevo una nonna che parlava così, con dei colpi di tuono.
Un mio amico con cui avevamo parlato poco tempo fa del fatto che i libri si scrivono con gli occhi, mi ha chiamato ieri e mi ha letto al telefono un pezzo di Flannery O’Connor preso da Nel territorio del diavolo, Sul mistero di scrivere (Minimum Fax 2002, pp. 150, euro 7,50, a cura di Robert e Sally Fitzgerald, edizione italiana a cura di Ottavio Fatica). Oggi sono stato in libreria e ho comprato il libro. Il pezzo è questo: «La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli... Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York, da una signora russa che ha fama di essere un'ottima insegnante. Mi scriveva questo mio amico che per tutto il primo mese non hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, è la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li costringe a osservare le cose».

3 ago 2007

chiara d'Assisi : seconda lettera alla beata agnese di praga


Ciò che hai, tienilo, ciò che fai, fallo senza smettere, ma con rapida corsa, con passo leggero, senza ostacoli ai piedi perché non raccolgano la polvere del tuo cammino, sicura, gioiosa e vivace, cammina prudentemente sul sentiero della beatitudine, non credere a nulla, non consentire a niente che ti voglia allontanare da questo proposito o che ti presenti un intoppo sulla via. [...] Se qualcuno ti dicesse altre cose, o ti suggerisse altro, che possa impedire la tua perfezione [...] rifiuta senz'altro di seguire il suo consiglio.
...

Giorgio Seferis: l'ultima tappa

....
Veniamo dall'Arabia, dall'Egitto
e dalla Palestina e dalla Siria:
Veniamo dalla sabbia del deserto
e dai mari di Pròteo, anime raggrinzite da pubblici peccati
ciascuno col suo rango come l'uccello in gabbia.
E l'autunno piovoso in questo buco a sdegnare la piaga di ciascuno
- per usare altri termini: la nemesi, il destino,
forse solo abitudini cattive, "frode, inganno"
o l'egoismo di speculare sopra il sangue altrui.
...

Il brutto potere, il comune danno, l'impero.

In uno dei primi post scrissi di Ratzinger e della sua critica al principio speranza di Broch. Qualche giorno dopo apprendo del "motu proprio" del Papa ed attendo un profluvio di reazioni. Ma inizialmente leggo solo della messa in latino cui plaude Ceronetti dalle colonne de "La Stampa", a fronte però del latino stento e pieno di "bruttezze" utilizzato nel documento vaticano evidenziato ironicamente da Carlo Ossola sulle pagine del "domenicale" del "Sole 24 Ore". Ma la questione del latino è minore. Ratzinger con questo suo documento in sostanza chiude con la lunatic fringe di chi voleva una lettura eterodossa di alcuni passi del Gaudium et spes, là dove si parla dell'unicità e universalità della Chiesa Ratzinger riprende alcune idee già avanzate nell'agosto 2000 in una "dichiarazione circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa". Dopo il '68 un punto di apertura verteva proprio sull'idea di unicità e universalità. Detto in parle povere: Gesù è venuto per salvare tutti, quindi la chiesa è una perchè si deve identificare con l'intera umanità. L'unicità e l'universalità della chiesa dopo il Concilio vennero interpretati come principi di non esclusione degli altri. Non ci sono i "sommersi e i salvati". Siamo salvi tutti. Ratzinger invece corregge significativamente il tiro bruciando trent'anni di progresso, per cui quelli di "Rocca" e tanta altra sinistra cattolica da Gozzini in avanti dovrebbe mettersi le mani tra i capelli. La Chiesa è unica perchè c'è nè una, ci ricorda Benedetto, e quell'una è la sola chiesa cattolica romana, con buona pace dei fratelli orientali. E poi, è universale non perchè riguarda tutti, ma perchè il suo magistero deve estendersi e valere su tutti: tutti sono chiamati ad uniformarsi ad essa ed è legittimo che il suo potere si estende all'universo-mondo. Mi si perdoni la volgarità dell'esposizione non degna del pronipote del teologo traduttore del Nuovo Catechismo Olandese, ma sono sicuro che lo zio non me ne vorrà se cerco di essere chiaro a rischio di apparire irriverente. Sì perchè la situazione è seria. La restaurazione e la chiusura alzano la voce: basta con la poltiglia postmoderna dove va bene tutto: "La chiesa è questo e non addolciamo la pillola. Prendere o lasciare". Se la strategia di Giovanni Paolo fu portare la Chiesa al mondo , aprendosi alle istanze della modernità (della comunicazione se non altro) e affrontando qualche rischio eterodosso, la strategia dell'intelligentissimo Benetto è opposta, ed oggi vincente. Si tratta di portare il mondo alla Chiesa. Non è un gioco di parole capzioso. Benedetto ha capito una cosa fondamentale, una punto che lo accomuna e lo mette in perfetta sintonia con molti giovani della mia generazione, che dall'ormai postumo post-moderno hanno appreso prima una lezione del relativismo, e poi da questo relativismo hanno tratto una forza, relativa ma indiscutibile. Quella di una verità del "particulare" di guicciardiniana memoria. In un mondo dove manca il fondamento assoluto della verità, è paradossalmente lecito tifare per una verità assoluta e per una fede assoluta anche se infondata. Infondo si muore spesso in nome di una fede, e spesso questa fede è per un gagliardetto, una divista, la maglia in una società calcistica quotata in borsa. Questa fede anche se irrazionale è reale e fattuale. Muove milioni. Non serve la verità per l'entusiasmo. Non serve la verità per attaccare. Non serve alcuna verità per fondare il potere che domina o alimenta le nostre vite. Questo è un primo punto preoccupante. La seconda preoccupazione mi viene dalla politica e dal conflitto con il potere giudiziario, e non mi rifersico al problema delle intercettazioni per la scalata ad Antonveneta ma ad una una risoluzione approvata all'unanimità dal Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura il 4 luglio 2007 e non troppo pubblicizzata in proporzione all'importanza della notizia che praticamente ci informava di un pericolo reale per la democrazia: di un conflitto di potere di proporzioni immani. La risoluzione riguarda i servizi segreti e dice che è stato il Sismi in sè stesso e non i “settori deviati” del servizio a svolgere l'attività di spionaggio nei confronti di magistrati. Dell’archivio segreto di Pio Pompa in via Nazionale a Roma è emerso che il servizio segreto ha svolto un’attività “estranea” ai suoi compiti con lo scopo “intimidire” e far “perdere credibilità” ai magistrati. Perchè metto vicini questi due elementi? Perchè se il reciproco controllo che è base dello stato costituzionale di diritto mostra le sue debolezze in una dinamica di delegittimazione o conflitto, ancora una volta ad uscirne vincitore è il carismatico appeal di una posizione che eticamente afferma di conoscere il bene, e di fronte a tanto disordine, pacata, ci propone le sue soluzioni assolute. Nette, semplici, apparentemente non del tutto ingiuste. Per questo tabto ripenso a Giacomo Leopardi e quei magnifici e terribiuli versi di A se stesso dove cita il "brutto / poter che a comun danno impera"... dove la potenza immobile dell'enjambenment perfettamente bilanciato tra rejet e contra-rejet pare interrogare insensibile, me ed il lettore futuro, come una sfinge.

2 ago 2007

Tentativo di luce. Su Franco Buffoni.

Accade che un libro, al di là delle premesse su cui è fondato, susciti nel lettore un particolare entusiasmo. È quello che mi è accaduto leggendo l’ultimo libro di Franco Buffoni, già segnalato tra i consigli di lettura per l’estate. Difficile stabilirne il genere: l’autore lo ha descritto come un romanzo ma la definizione non mi pare del tutto calzante, e personalmente lo trovo più affine alla saggistica memoriale, sebbene presentata in forma inusuale. Si tratta infatti di testo dialogico tra l’autore e il nipote Piero, un giovane di poco meno di trent’anni che si definisce marxista, partecipa ai cortei anti globalizzazione e simpatizza con i frati di Assisi. Il testo è inframmezzato da poesie o parti di poesie e da diverse lettere: tre al padre, una a Giacomo Leopardi, due al nipote, e una conclusiva, impietosa Lettera di Piero allo zio ― che in una recente presentazione Stefano Raimondi ha saggiamente deciso di leggere come incipit.
“Dio, la guerra, l’omossessualità”, come recita il sottotitolo, sono i temi principali ma, anche se già così ce ne sarebbe da dire, nel libro sono presenti elementi di riflessione che aprono su prospettive per quanto mi riguarda ancora più interessanti: in primis il problema della “falsificazione culturale” e della relatività delle varie “tradizioni culturali” e “civiltà letterarie”. Tra le letture esemplari in questo senso Buffoni cita ovviamente il De Falso credita et ementita Constantini donatione (1440) di Lorenzo Valla ed il Defensor Pacis (1324) di Marsilio da Padova (in cui, riguardo la religione, miglior espressione trova la successiva idea volterrana di “pia frode”), ma anche la parabola di Cecco d’Ascoli che di fronte alla pietas virgiliana e dantesca osò proporre «non pietate ma raxone».
Secondo Buffoni la pietas deve diventare una virtù civile slegata dalla metafisica cristiana, un’ "eredità umana", un valore ateo come lo stato costituzionale di diritto: erede di Mill, Hume e Gladstone quanto di Mosca e Pareto, Buffoni non descrive tuttavia un percorso banalmente “laicista” ma, sulla scia di Berkley, Clarke, Leibniz, Jacobi, Muratori, e Genovesi, si apre al cristianesimo e alle “religioni positive” proprio partendo da una domanda cruciale sulla ragione del male nella vita umana. Pur riconoscendo l’importanza degli amati maestri Fortini e Raboni nello specifico ne prende le distanze quando i due paiono schierarsi a favore del “santo vero” manzoniano, per riallacciare invece i ponti con il genio solitario di Leopardi lettore di Lucrezio e anticipatore della teoria del "tempo profondo" di S.J. Gould; il Leopardi che di fronte al faute de mieux dei terrorizzati “atei devoti” ancora oggi risponde col coraggio della sua Ginestra, «mentre Manzoni, ricordiamolo, dopo la morte di Carlo Imbonati aveva abbandonato gli ideali di Verri e Beccaria per volgersi al cattolicesimo più retrivo, in perfetta sintonia con gli ideali della nuova leadership austriaca» (p. 161). Nell’ottocento di Rosmini e Manzoni concepire un universo non costruito per l’uomo e le sue esigenze era follia. Era questa la solitaria “follia” di Leopardi, una “follia” che con beffa atroce dell’evidenza scientifica storicamente riconosciuta, ci viene ancora fatto passare per “pessimismo”.
Il lettore di questo libro peraltro si trova anche di fronte ad un’autobiografia famigliare e intellettuale, posta però sul piano della distinzione tra stato etico e stato di diritto (e sulle conseguenze derivanti dallo scegliere se stare dall’una o dall’altra parte). Se Montale dichiarava “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, Franco Buffoni, come Sandro Penna, chi è e cosa vuole lo dice a chiare lettere: «Sì sono ateo, omosessuale, illuminista e antiproibizionista. E sostengo il darwinismo materialista scientifico puro» (p. 145). In questo dialogo filosofico, in cui la controparte ha la funzione di “mandare avanti il discorso”, Buffoni esplora quelle zone di reticenza che impediscono un reale progresso nella letteratura e nella società, o il cui valore appare dominante e onnipresente, anche se non ragionevolmente fondato. La traiettoria intellettuale che emerge dalla lettura di questo testo mi pare inedita nel “campo letterario” nazionale o almeno abbastanza rara nel Novecento italiano, anche per l’aperta chiarezza con cui presenta le sue idee, agevolato in questo dall’artificio stilistico del dialogo:
Tra i tuoi maestri chi non si gingilla? [chiede il nipote]
Te l’ho detto Zanzotto. Ammiro il suo
coraggio nell’affrontare il dato scientifico e lo sforzo di assorbirlo,
inglobandolo nella sua poetica.
Però non lo ami
Amo di più Cattafi, o Caproni…

Continuatore della tradizione illuminista che fonda lo stato di diritto in contrapposizione allo stato etico, Buffoni si oppone dunque con fermezza al potere simbolico e materiale di quelle istituzioni che pretendono di prevaricare la libertà civili, e lo fa affidandosi al modello intellettuale di Richard Rorty e a quella tradizione anglosassone di empirismo e logica che va da Ockham e Bacone e, per venire a tempi più recenti, trova i suoi modelli di riferimento in G. E. Moore ed in tutta quella tradizione “analitica” che parte dal rasoio di Ockham e arriva alla cosiddetta “forca” della ragione di Hume. Sulla scia dei "fondamenti della conoscenza epirica" di A.J. Ayer, rifiutando l’esistenza di poposizioni etiche giustificate: «mi trovo infatti a sostenere che le uniche proposizioni genuine sono quelle della logica e della matematica (la cui verità non dipende dall’esperienza) oppure quelle delle scienze empiriche, (che vengono enunciate sulla base di osservazioni)» (p. 129).
In nome di questa visione atea, che qualcosa deve anche alla consigliata Storia dell’Ateismo di George Minois, Buffoni legge le debolezza umana dei poeti attratti dai grandi miti, dai grandi uomini e dai grandi ideali. Ed è qui che si trova un pezzo di storia letteraria che non trova una scansione così sistematica e chiara nemmeno nei manuali di letteratura. E non si parla del solito abbaglio di Ungaretti per il fascismo: piuttosto, si tratta di ricostruire il fascismo come "categoria dello spirito", ed a proposito Buffoni menziona tanto Isherwood simpatizzante per la Union of Fascist, quanto Auden attratto dalla potenza di Stalin.
Ci sono dunque i phares ma non sono quelli che ci si aspetterebbe da un poeta. Pochi infatti i poeti, “perché la poesia si ama”, molti gli scienziati che in nome della ricerca si trovano a sostenere posizioni "scomode". Appartengono a questo novero coloro che nella storia seppero non farsi sedurre dai totalitarismi etici o chi disertò i “valori eterni” di “onore” e “dovere”. Certo gli ufficiali diplomati e laureati come Vittorio Sereni erano eticamente obbligati al fronte, ma diventare ufficiali significava anche carriera, status e solo rinunciando anche a questa controparte materiale inerente il “fare il proprio dovere” si poteva sottrarsi a quella dinamica storica.
Ma come vederlo allora? Come pensare la diserzione come valore? Raboni analizzando il carteggio Bertolucci-Sereni evidenzia questa discontinuità tra i due: Bertolucci resta soldato semplice e si imbosca molto presto a tradurre il suo Ronsard, Sereni invece risponde “presente!” all’appello ― per poi dolersi nei decenni a venire di non aver potuto rispondere a quell’altro appello, quello della resistenza, che avrebbe dato ad alcuni dei suoi valori di Cameraderie tutto un altro senso. Sì perché Buffoni ci dice di non prendere sotto gamba i valori, per così dire, “della trincea”, che non sono fuffa. Il cameratismo inteso come Camaraderie infatti ha voluto dire molto nell’idea sociale dell’uomo. In guerra si sono criminalmente spesi (e spenti) grandi valori. Bianciardi ricordava che sono sempre i sottotenentini studentelli di vent’anni a portare contadini e operai al massacro. Questa innocenza che guida l’innocenza, la buona fede, il sacrificio, lo spirito di corpo, la solidarietà, “l’allegria”, la vita, i valori umani, tutto questo bene era qualcosa di ben visibile e presente nelle coscienze di chi lo aveva provato sulla propria pelle, e si parla di almeno un paio di generazioni nate tra il ’75 e il ’99 dell’Ottocento. Più difficile cogliere la dinamica per cui questo bene, al soldo dell’etica di uno stato belligerante, si trasformasse in male. Questo è l’osceno. Questo l’inaccettabile, per Franco Buffoni. Ma, ancora, come vederlo? Alcuni ci riuscirono anche in quegli anni, qualcuno, come il Tarchetti di Una nobile Follia, che precorreva i tempi parlando della carneficina della Crimea, ma i più, supini, si bevevano le balle della “religiosa ecatombe” promossa da Croce, la “risvegliatrice degli infiacchiti” di Papini, la “sola igene del mondo dei futuristi” e via dicendo. Pochi, anche tra i professori, dissero di no al duce quando chiese loro di giurare fedeltà al regime (quattordici ne conta Buffoni, aggiungendo Fabio Luzzatto e Piero Sraffa ai dodici analizzati da Giorgio Boatti nel suo bel libro dal titolo melvilliano Preferirei di No, Torino, Einaudi, 2001). Ci furono dunque i “non allineati” come il gruppo di Giustizia e Libertà feondato a Parigi nel 1929, ci furono Arturo Carlo Jemolo e Ernesto Bonaiuti, Ernesto Rossi e Mario Pannunzio ma i più agirono come Sabato Visco e Nicola Pende che, pur riluttanti furono responsabili di avvallare le leggi razziale con la loro autorità scientifica. I casi come quelli del socialista Torquato Nanni (primo biografo di Mussolini per la «Voce» di Prezzolino) che si frappone tra i proiettili dei partigiani e il corpo del fascista “critico e massimalista” Leandro Arpinati, sono memorabili proprio per la loro unicità.
Tuttavia come ho detto, nel libro non c’è solo la storia sociale delle idee ma anche la vita in “prima persona” e l’intreccio strettissimo dei due piani. E questa ultima caratteristica, questo tentativo di procedere in un discorso unitario, mi pare la cifra più originale di questo "romanzo saggistico": c’è la lotta con un padre cattolico reazionario, lettore del «Corriere» fino alla “scandalosa” direzione Ottone che portò Pasolini in prima pagina, un padre ovviamente incapace di accettare l’omosessualità del figlio, che si irrigidisce persino quando apprende che i gesuiti hanno portato gli alunni a vedere il Vangelo secondo Matteo. Un ufficiale che ha combattuto quella che Alessando Natta in un suo libro del 1997 definisce come l'altra resistenza, ovvero la resistenza di chi non prestò giuramento alla “Repubblica Sociale Italiana” di Salò e per questo fu internato nei campi di prigionia tedeschi. Il padre di Franco Buffoni e altri come lui avevano giurato fedeltà al re ed erano insofferenti di quella parola “repubblica”, che non a caso nella parlata lombarda indica qualcosa di davvero residuale, come ricorda Luciano Erba in una sua poesia «Quando andavo a comprare la mostarda / Mia madre mi diceva: già che ci vai / fatti dare un po’ di repubblica, / intendeva gli avanzi quali che fossero / rimasti sul banco del salumiere». (A chi interessasse ricordo che qui può leggere un altro aneddoto su Erba). Il padre, un reazionario cattolico, fervente monarchico educato dai fascisti, viene dunque fatto prigioniero degli “alleati” tedeschi in nome di un “onore” il cui valore sarà disconosciuto nell’Italia post-fascista e si fa due anni come internato nei campi di detenzione tedesca. Liberato dai “nemici” Russi, Americani e Inglesi si trova davanti ad una grnade crisi. Quale poteva esserne il risultato? Purtroppo non un (pur difficile) ripensamento e messa in discussione dei propri valori, ma un cortocircuito dalle nefaste conseguenze…
avendo debordato, voglio concludere ricordando cosa mi ha detto l’autore in occasione della presentazione del libro, nella libreria di un Parco Sempione arroventato dal sole di luglio: "Michaux dice che per comprendere l’intelligenza deve sporcarsi, essere ferita". Ricordo che un tempo volentieri mi affiabiavano il nomignolo “Pig Pen”, come il personaggio dei Peanuts; quanto alle ferite, non posso che stupirmi del meraviglioso funzionamento dei globuli bianchi dell’anima. Quando ci permette di rialzarci.