29 ott 2007

tema in classe

Al termine di una lunga requisitoria, i Pm di genova Anna Canepa e Andrea Canciani hanno richiesto una pena complessiva di 225 anni di carcere per i 25 manifestanti, imputati per devastazione e saccheggio nel processo sui fatti avvenuti durante il G8 del 2001 a Genova. La pena più pesante, 16 anni, è stata chiesta per la 41enne lecchese Marina Cugnaschi, imputata anche per altri due reati e considerata dagli inquirenti membro dei "black block"; richieste di condanne ultradecennali anche per Alberto Funaro e Francesco Puglisi (15 anni a testa), Vincenzo Vecchi (14 anni e 2.500 euro dei multa), Luca Finotti e Carlo Cuccomarino (12 anni). Per gli altri sono state proposte pene comprese tra 10 e 6 anni. «Chiedo a voi tutti - ha detto Canciani in aula - una volta accertata la responsabilità delle persone, di avere il coraggio di chiamare le cose che abbiamo visto con il loro nome, devastazione e saccheggio, come avremo il coraggio di chiamare massacro quello che è avvenuto alla scuola Diaz». Le cose, in effetti bisogna avere il coraggio di chiamarle col loro nome. Accettiamo l’invito e traiamo qualche conclusione. Devastazione e massacro. Della prima sono responsabili i civili, della seconda le forze dell’ordine. Sta bene. Vediamo allora di ragionare di conseguenza. Anni di carcere per chi ha spaccato macchine e vetrine, ancora più carcere per chi ha spaccato teste a persone. Sono più importanti gli uomini o le cose? La risposta è ovvia ma credo che la violenza di Bolzaneto non sarà stanata alla radice. Per i 45 imputati per i fatti della caserma aleggia la prescrizione. Ugualmente si prospetta indulto e prescrizione per i 29 agenti di polizia riconosciuti tra i responsabili della scellerata irruzione alla Diaz. Da una parte i “colpevoli” in carne ed ossa, capri espiatori, i “violenti contro le cose”, dall’altra “i servi dello stato”, i garanti dell’ordine, tutelati dal sistema che garantiscono, cui dobbiamo essere grati per un magnifico pregiudizio e per un maldigerito senso di colpa. “I servi io li tratto bene”. “I servi bisogna rispettarli, fanno il lavoro sporco che noi signori non vogliamo fare”. “Conservano le cose che possono o potrebbero essere mie”. “Possiamo punirli sì, colpevolizzarli mai”. Spaventosa ipocrisia del linguaggio. Servi. Gesù sarebbe stato coi servi. Pasolini pure. Allora tutti se la presero. Lui disse che era una poesia ironica. Forse lo era davvero. Sicuramente ironica l’idea di pensare che da una parte “giustizia è fatta” perché ci sono i colpevoli in carne ed ossa, e dall’altra “giustizia è fatta” per un risarcimento. Senza colpevoli. Infatti lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia. Come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete Lilliput, era seduta, con le mani in alto e fu massacrata di botte senza ragione. Per il giudice Angela Latella la selvaggia repressione genovese è coperta da una vergognosa cortina di menzogne e depistaggi da parte della Polizia di Stato, e, ben più grave, la sentenza genovese certifica che quella violenza non fu un’iniziativa isolata, ma avvenne in un preciso contesto. Un’altra brutta pagina di una democrazia imperfetta che ancora tende a lisciarsi il pelo parlando di “buona giustizia” (Lucia Annunziata). Forse in senso tecnico è così. Ma il discorso è diverso. Si tratta di responsabilità individuali, e la storia non possono farla le sentenze. E invece in Italia la giustizia è l’anticamera della storia; l’una si è sporta naturalmente verso l’altra in un abbraccio inquietante, in una farsa grottesca, l’una dilatando a dismisura i tempi, l’altra restringendoli. Una roulette russa tra “sommersi” e “graziati”. E che grazia. Cinquemila euro di rimborso alla pediatra e nessun colpevole a fronte a 225 anni di carcere. A luglio a Rostock ci furono quasi mille feriti e 130 arresti. Entro i primi giorni dall’arresto ci furono i processi: un 31enne fu condannato a dieci mesi di reclusione senza la condizionale per aver lanciato sassi, bottiglie e altri oggetti a ripetizione contro a polizia nei disordini. Pur nella sua brutalità, questa giustizia ha un senso. Magari è ingiusta subito, ma evita di proiettare la sua distorsione. E invece, così, abbiamo il tardivo rimborso e l’altrettanto tardiva pena esemplare, forse ancor più temibile perché parafrasando Leopardi “il male atteso è sempre maggiore del male presente”. Il messaggio è chiaro. Anzi sono due. Prima di tutto la magra giustizia non può che arrivare come grazia personale; come riconoscimento di un percorso di purificazione dovuto all’abnegazione del questuante e non a un riconoscimento dell’istituzione “in fallo”. “Devi meritarti il rispetto, tornare a parlarci”. “Gioca secondo le regole e saremo comprensivi”, “Te l’eri cercata ma ti è andata bene”. Di là invece i colpevoli veri, in carne ed ossa. Quelli che hanno attentato alla “Roba”. L’unica cosa più vera dei corpo.
La “pena esemplare” per l’arroganza, la sete di violenza, il fascismo esibito, l’uso arbitrario della forza, per la volontà di colpire innocenti; insomma, il risolutivo faccia a faccia con i reparti creati ad hoc come i Canterini Boys o i Ccir, i famigerati contingenti di carabinieri per gli interventi risolutivi, sono ancora là da venire. Già così il processo potrebbe costare allo Stato tra i 7 e gli 8 milioni di euro.

14 ott 2007

Letteratura Postcoloniale e della migrazione. Il caso Bahatt.

Ron Kubati è nato a Tirana nel 1971, da anni vive in Italia e ha pubblicato diversi libri. Carla Benedetti recensendo il suo ultimo romanzo scrive «sulla "letteratura migrante", che ormai è una realtà cospicua del nostro paese, sull'arricchimento che porta, sul suo valore non solo documentario ma anche letterario, è già stato detto molto. E anche sul rischio che la categoria, ormai diventata anche un genere editoriale, possa ingabbiare le diverse voci dentro a uno stereotipo. Ma questa è oggi la sfida di tutti quelli che scrivono. Viviamo in una società normalizzatrice in cui ogni singolarità è mal tollerata, criminalizzata, oppure ritenuta poco spendibile nella comunicazione e nel mercato».
Tutto molto vero, o quasi. Nei paesi di lingua inglese sono venticinque anni che razza e genere si mettono sullo stesso piano vendendosi infatti un sacco di opere di non inglesi che scrivono in inglese e di non eterosessuali che scrivono della loro non eterosessualità. Ma la fornace vera, l’industria, è quella della critica che va a braccetto stavolta sia con gli scrittori, sia con il mercato editoriale. Da un po’ mi trovo a meditare su questioni e una splendida risposta ad alcune mie idee la trovo in Cancellazione di Parcivall Everett, romanzo che consiglio. Il fenomeno che questo romanzo tematizza con ironica grazia, avevo cercato di esprimerlo recensendo Il colore della solitudine, di Sujata Bhatt, poetessa indiana di espressione inglese (trad. Paola Splendore, Roma, Donzelli, 2005). Il pezzo, chiestomi dall’“Indice” non si confaceva forse alle esigenze della rivista e giustamente non fu allora pubblicato. Lo ripropongo ora in questa sede ritenendo che tale discorso vada stimolato, e non sopito.

Il poeta romantico in lingua gujarati Narmad (1833-1886) seppe rapidamente appropriarsi di alcuni tratti fondamentali dell’occidente (fondò, tra l’altro, «Dandiyo», un foglio sul modello dello «Spectator») e scrisse una celebre canzone ricordata dal Mahatma Gandhi nelle sue memorie che diceva: «Guardate come i forti inglesi dominano i piccoli indiani Siccome mangiano carne, sono alti cinque cubiti». Oggi fortunatamente, e ormai da una trentina d’anni l’ipernutrita cultura anglofona dall’alto dei suoi cinque cubiti ha cominciato a guardare con interesse alla cultura delle ex colonie ed in particolare agli scrittori di lingua inglese, come Sujata Bhatt, una poetessa quasi cinquantenne nata ad Ahmedabad da una famiglia bramina e cresciuta tra New Orleans, la città di Pune, in India e il Connecticut dove il padre è chiamato a dirigere un programma di ricerca all’università di Yale.
Formatasi nel cuore pulsante della teoria americana su un canone esemplarmente “occidentale” (Hardy, Yates, Eliot, Stevens, Bishop, Williams etc.) Sujata Bhatt ha tradotto la poesia Gujarati per la Penguin Anthology of Contemporary Indian Women Poets e in inglese («lingua d’elezione della scrittura poetica» e «unica vera patria») ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Brunizem, Manchester, The Carcanet Press, 1988, premiata con il prestigioso "Commonwealth Poetry Prize") cui hanno fatto seguito Monkey Shadows (1991) The Stinking Rose (1995) Augatora (2000) e The color of Solitude (tutte pubblicate dall’editore Carcanet e tutte ampiamente antologizzate nella scelta compiuta dalla curatrice italiana coadiuvata dall’autrice stessa). Determinanti per la sua formazione sono il contatto con un poeta di rilievo come Eleanor Wilner (1937) (presente nella prestigiosa Norton Anthology of Poetry) e la frequentazione di un Writers’ Workshop organizzato dall’università dell’Yowa dove incontrerà anche il suo futuro marito, un giornalista e scrittore di Brema. “La lingua come condizione d’esilio” e “la viva restituzione della corporeità e dell’eros in un’ottica femminile” connotata da esperienze usualmente private di rappresentazione (Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei seni / di una donna incinta / al quarto mese?”) sono indubbiamente una delle cifre dominanti della poesia della Bhatt che tuttavia ha il suo valore in quanto poesia pubblicata nell’idioma più parlato al mondo e impostata su presupposti culturali tutt’altro che “marginali”, almeno nel mondo anglofono.
Lo dimostra il fatto che il problema del multiculturalismo cominci a farsi udire anche in Italia, e per di più in un “genere” o meglio “in uno spazio di mercato”, relativamente angusto come quello della poesia. Ma la poesia multiculturale cantata in The Multicultural poem «La poesia multiculturale è una creatura, un essere il cui spirito respira come un’orchidea al sole ancora umida di pioggia» assomiglia tanto a quella “ruota lucidata da due scrosci di pioggia” da cui "così tanto dipendeva", ed è avvicinabile in primis allo stile di quel poeta radicalmente monoculturale, in perenne lotta con il chiassoso (e paradossalmente reazionario) cosmopolitismo poundiano, che fu William Carlos Williams. L’equivoco dei “margini” porta ad una sovrapposizione dell’immaginario estetico e sociale non sente da rischi. Già è difficile decidere se e come esportare un modello politico, peggio coltivare in vitro un’idea di un valore letterario “anatomico” e “di genere”, perché l’abbaglio “dei cinque cubiti”, come il faquir della tradizione araba, è sempre lì pronto a sbucare ad ogni svolta d’angolo.

10 ott 2007

Moresco saggista (2) il conflitto di un uomo pacifico.

Ho detto che la critica di Moresco nasce come sfida ma ho anche parlato di una estrema gentilezza che caratterizza ogni suo scritto, una grazia che rende poetiche e miracolose anche le efferatezze dello stupratore di donne gravide, della bambina venduta al porno, della donna senza buchi, di quella avvolta nella carta stagnola e così via nei Canti. Ho usato il termine nel senso che gli conferisce il regista Davide Maderna quando scrive:

Mi viene in mente quella battuta di Nazarin (1958) di Luis Buñuel: la storia di un giovane prete fuori del comune, che vive ospitando prostitute e, ogni volta che riceve delle elemosine le offre ad altri, comportandosi da puro tramite; non possiede nulla, rifiuta qualsiasi ruolo sociale, perfino il ruolo sociale del prete. A un certo punto qualcuno gli chiede: “Ma lei sfida la società, sfida le ingiurie, gli insulti del popolo, dei suoi parrocchiani?”. E lui risponde: “No, io non sfido proprio nulla. Io accetto le cose come sono”. È un personaggio stralunato e non lo dice con boria. Il valore del termine ‘accettazione’ di cui vorrei parlare è un po’ questo: di qualcosa che si contrappone a quel germe di odio, di competizione insito nella parola ‘sfida’.

Moresco accetta di parlare. Non si butta nella mischia per avere il primo posto sotto i riflettori e poi non dire più niente. Un amico mi faceva notare che nell’ultimo aggiornamento della canonica Storia della Letteratura Italiana di Cecchi Sapegno viene dato a Moresco il “giusto spazio” e mi dice “e allora che vuole ancora”. Moresco stesso lo ripete in un intervento al salone del libro e in diverse occasioni. “No, non mi basta”.
Il grande merito, la superconvenienza, per così dire citando Céline in Mea Culpa, che Antonio Moresco poteva portare ad un lettore ventitreenne in procinto di laurearsi in letteratura italiana era di aprire gli occhi su un conflitto culturale in atto, sordo e senza spigoli: lamette da barba affondate nel cotone. Per comprendere Il paese della merda e del galateo il rimando a Pasolini contro Calvino è d’obbligo. Dei due saggi feci una lettura contigua e di seguito ci furono le Lettere a nessuno pubblicate sempre con Boringhieri, dove lavorava Berardinelli come consulente editoriale. Erano il quadro di un paesaggio desolante e la descrizione di un passaggio storico in prima persona. L’euforia per Gli Esordi, l’esplosione dei Canti del Caos, la loro novità creativa attutirono il primo colpo di quei saggi, che, tuttavia, negli anni continuarono a parlare adunando tacitamente non veri e propri interlocutori ma effetti di risonanza che portano più o meno tutti ad una rotazione dell’asse critico del discorso e al riesame di alcuni valori: Calvino, Eco, in primis, ma anche un certo Magris e Del Giudice e poi ancora tanti autori... Sintomatico leggere le diverse recensioni di Pent alla prima e alla seconda parte dei Canti del caos. Nella prima diceva in sostanza che l’autore se la canta e se la suona; nella seconda lodava la serietà e la coerenza del progetto o qualcosa di simile. In ogni caso io nell’accusa di Moresco ci vedevo anche qualcosa della mia generazione; ci vedevo tanta narrativa einaudi (Galiazzo e Bajani ad es.); ci vedevo anche una critica a certi miei racconti usciti sul «Maltese». Aveva colto nel segno, e aveva ragione. Certo prima di lui l’avevano capito altri: Fortini ad esempio aveva notato che Calvino, “l’ottimista all’ombra del potere”, tendeva a ridurre i conflitti e gli antagonismi storico-sociali a mero sistema di conflitti, ma Moresco mi aveva fatto capire in modo concreto quale era il limite di quella idea di letteratura. Me lo aveva fatto toccare con mano con due opere potenti e senza paragoni nel mercato editoriale italiano che si presentavano come una risposta all’impasse denunciata. Molti altri coetanei allora riconobbero la potenza di quella scrittura, la sua novità e anche negli anni di Dottorato, le persone cui parlavo della sua opera si facevano interessate, attente, oppure polemiche, comunque vive. Cosa rara nei corridoi dei dipartimenti. Quando feci conoscere la sua opera ad un amico che insegnava letteratura italiana all’università di Barcellona, quasi immediatamente decise di farla tradurre in spagnolo. Da allora Antonio si ricorda di me come il “motore immobile” e la cosa mi fa spesso sorridere. Queste sono le ragioni personali che mi hanno spinto a cominciare questo saggio e a scrivere questo preambolo. Dalla prossima puntata, i testi nel dettaglio.

9 ott 2007

Antonio Moresco saggista (parte I)

Leggo Moresco dai tempi di Lettere a nessuno. È lo scrittore italiano vivente che più ammiro. Abbiamo parlato in quattro o cinque occasioni e la mia simpatia si è ulteriormente incrementata conoscendo la persona. Date queste premesse è difficile imbastire un discorso ma mi piacerebbe riuscirci. Nelle puntate di questo irregolare feuilleton critico ci proverò.
*****
"E’ saltato questo, è saltato quello, abbiamo rotto i ponti con questo, abbiamo rotto i ponti con quello… Sono le letture teoriche di questi anni, le semplificazioni di questi anni, ad opera di un personale intellettuale che si è andato a chiudere da sé in questo vicolo cieco […] Una sorta di ceto intellettuale in perdita di statura e di status che legge tutta la realtà attraverso i propri piccoli schemi teorici e sociologici separati, che crede di essere in un posto e invece si trova in un altro infinitamente più drammatico e grande. Il tutto stando bene al caldo nel suo piccolo posticino, senza neppure le sia pur risibili furie modernistiche astratte delle Avanguardie Storiche, prese in contropiede dai tempi a venire. C’è in giro una lettura annichilente della vita e della “letteratura”, da parte di figure che si sono già date per vinte. Sono anni, sono decenni che lo stesso sguardo si ripresenta sotto aspetti diversi ma con lo stesso piccolo obiettivo di fondo. Adesso non si può più questo, non si può più quello… No, si può ancora, si può sempre. Siete voi che non potete. Non bisogna avere paura della grandezza perché la grandezza è sempre possibile. Tutte queste piccole teorie da macchine celibi, da spaventati, da figure specializzate che hanno paura di sapersi e di sentirsi dentro la stessa terribile grandezza e lo stesso rischio che vedono nel passato, in un passato pietrificato e disinnescato che leggono attraverso le loro lenti culturali consolatorie. Bisogna davvero essere molto insicuri della propria grandezza e dei propri sogni per avere una simile paura della grandezza!"
Per avere un’idea di come agisce Antonio Moresco scrivendo si può citare questo passo come innumerevoli altri dalla Visone (1998) allo Sbrego (2004). La scrittura di Moresco ripete, affabula si dispiega in cellule omogenee, ripetibili in sequenze variate, per partenogenesi. Moresco è il monolinguismo del nuovo secolo, la digestione del tempo traslata in uno stile immutabile che ha una propria inconfondibile impronta che si innesta direttamente nella lingua italiana, “letteraria” e non (chi mai d’ora in avanti potrà un periodo con l’aggettivo “fiorita” preceduto da virgola?) Moresco vive una tensione una sfida costante. Fin troppo facile attaccarlo. Il suo essere ferocemente disarmato mette di fronte ad un’immediata empatia o ad un aperto rifiuto, ad una simpatia senza limiti, o a un fervore da barricata. E le barricate, inevitabilmente sono sorte. Carla Benedetti, Tiziano Scarpa, Giuseppe Genna, Massimilano Parente sono lì a testimoniarlo; attorno a Moresco è concresciuta negli ultimi dodici anni una legittimazione spontanea, fondamentale, una cordata. Impossibile però prendere il pacchetto schierato sul “fronte occidentale” o nella Nazione Indiana in toto: e poi cosa c’entra il pur ottimo e trascuratissimo Drago, o il meno dotato Bajani con questo discorso? Posso amare Moresco e ritenere Parente un perfetto imbecille? E come non vedere in questa dinamica la ragione della diserzione critica dalla sua opera, il bisogno di prendere le distanze da un qualcosa che si compatta e fa gruppo? Viene da dire "il suo codazzo di accoliti ce l'ha e si lamenta ancora, quel mafioso, arriva lui e tutti un passo indietro a riverire... ma da dove cazzo arriva questo piantagrane" Moresco cammina per la sua strada, con furore e grazia (grazia che dimostra ad esempio rispondendo allo scomposto intervento di Cortellessa su Evangelisti) e ci riporta come una scheggia sottopelle agli anni Settata e poi alla dispersione degli anni Ottanta. Moresco è l’autore che ha transitato valori letterari e codici del secolo scorso verso il secolo nuovo delineando una traiettoria intellettuale che emerge chiaramente negli scritti a carattere saggistico, anche se parlare di saggistica ad Antonio Moresco forse non piacerebbe. La saggistica è settoriale, professionale “disinnescata”, inaccettabile. Moresco non intende accettare le regole del gioco fin nel loro fondamento più remoto. Neanche la lettura è lettura nel senso tradizionale del termine, ma visione. Bisogna sfondare le paratie stagne dei settorialismi e dei generi. Tanti lo dicono, pochi a parte lui sono capaci di farlo davvero. Per saggistica intendo però quei luoghi in cui Moresco parla dei libri o dell’arte, intendo quelle pagine in cui parla di una cosa scritta o dipinta che esiste e poi magari si sfonda in un'altra, come nello Sbrego, o secondo il titolo originale, nell’Adorazione.
Per arrivare a rifondare la condizione epistemologica il saggio (scusate i paroloni) bisogna però non solo rifondare l’atto di lettura, azione aleatoria e non comprovabile, ma aggirare il canone, espanderlo evolvendo, cercando di evolvere la società e la civiltà italiana. Questo è il Moresco saggista che affronta il peso del mondo; quello che riconsegna al campo letterario italiano il mandato imperativo della grandezza, quello che piglia i soldi di Silvio per consegnare lo Zibaldone al bacino linguistico dominante al momento, quello che ci fa scoprire che Dante in Giappone era una donna, quello che combatte per i Rom e intanto ci porta a ripercorre strade impensabili, da Bilenchi a Walser, da Louis-Auguste Blanqui al Il principe Genji. Moresco odia il termine “letteratura”, penso che odi anche il termine “intellettuale” e forse anche “storia” e chissà quanti altri patetici tentativi linguistici di limitare qualcosa che non deve stare chiuso in scatole predigerite e precostiutuite. Eppure se un critico si mettesse a scrivere seguendo la sua lingua e i suoi strumenti non farebbe un buon servizio, né all’autore, né ai lettori né alla critica letteraria nel cui scaffale in fin dei conti finirà il libro. Per questo dovendo scrivere qualcosa su Moresco non mi metterò a lavorare con dei “trasferelli stilistici” ma cercherò di indagare “la posizione storica dell’intellettuale e saggista Moresco nel Campo della letteratura italiana”. Quasi tutte le parole potrebbero essere cassate come castranti ma le uso apposta. Ho sempre trovato poco giustificato e un po’ snob il desiderio di Montale di “non essere conficcato nella storia” soprattutto dopo che hai lavorato tanto, davanti e di dietro, per essere il poeta-giornalista del «Corriere»; per questo pur ritenendo fondamentale “l’uscita dallo stato di minorità” di cui parla Antonio, il servizio che mi sentirei di rendere (anche a chi quella novità non volesse o non potesse intendere) sarebbe spiegare il nuovo con il linguaggio vecchio. Pigrizia intellettuale? Omogeneizzati? Algidi companion da future adozioni da curriculum e nient’altro? Forse. Se qualcosa ho imparato, mi esporrò anch’io a qualche rischio. Perché ci sono ancora le cattive digestioni, le piccole mediocrità, la pigrizia. Partirei con un confronto: ad esempio tra la forma saggistica di Amore Lontano di Sebastiano Vassalli e Lo Sbrego… (continua)

Belpoliti e il Settanta che manca

Alla fine del maggio 2002 alla Festa degli Autori di Cuneo presentai il saggio Settanta, di Marco Belpoliti, recentemente definito da Emanuele Zinato come “postmoderno” e “smaterializzante” (p.18); ne riparlai poi nel marzo 2006 all’Università di Salford (Manchester, UK) nel convegno internazionale “Italian Fiction in the Sixties and Seventies”, sponsorizzato dalla British Academy. A Manchester ebbi modo di confrontarmi con Ernesto Livorni e di ascoltare una splendida lezione di Enrico Palandri. In ogni modo, stuzzicato da Zinato riprendo il testo e alcune delle considerazioni scritte allora. Il libro è composto da sette saggi e lettore può trovare in essi il proprio percorso di lettura, oppure mano a mano familiarizzando con i protagonisti, leggere questi saggi come ideali "storie della letteratura" parallele, intese come vicende di quello spazio indefinibile e ideale che definiamo piano della letteratura; piano su cui scorre ed evapora un discorso critico da Belpoliti portato avanti con stile chiaro e di piacevole lettura, bilanciato tra Calvino e di Celati (la scelta di rendere discorsivo anche l'apparato di note bibliografiche, ricorda le Finzioni Occidentali, cui è dedicato parzialmente l’ultimo capitolo). Il titolo però è ingannevole perché molto si parla degli anni Sessanta e poco del decennio successivo. Si tratta di una serie di colloqui a volte reali, desunti da carteggi editi e inediti, a volte invece ipotetiche tra Calvino e Manganelli per il fantastico, tra Sciascia e Primo Levi per l'ordine delle somiglianze assimilato all'interesse per la radice antropologica del narrare comune anche a Pasolini e Calvino; abbiamo poi il dialogo a distanza tra Pasolini, Calvino e Parise di fronte a problemi come il ’68, la povertà, l’aborto, il divorzio, l’omosessualità (ostacolo per un aperto dialogo con Sciascia, che dichiarando «di essere comunque dalla parte di Gide e non di Claudel» dopo la morte del primo, si pente di quest'incomprensione). Parise con Pasolini vive un rapporto particolarmente tormentato principalmente dovuto (lascia intuire Belpoliti) alle diversità di temperamento. Calvino a Parise che «la miglior cosa da fare è ignorarlo», Viene poi evocata la contrapposizione Pasolini-Pavese avanzata da Fortini (nella Verifica dei poteri sarebbe però da ricordare anche il suo dialogo-contrasto a distanza su Spitzer con il Cases de Il testimone secondario, con la risposta di Spitzer a quest'ultimo). Negli anni Sessanta l'attesa del classico non viene rimossa o sopita ma semplicemente transitata dalla letteratura al mito, dal mito all’antropologia, dall’archetipo alla tachigrafy, al “documento” di Foucault. Così mentre Manganelli e Calvino che si interrogano sul valore del classico (e ancora il confronto obbligato è con Eliot) dall’altra parte ci sono i documenti dei pazzi, la storia della clinica, la dietetica e l'erotica, il comico di Folengo Rabelais etc…E poi l'Aretusi di Camporesi, che affianca il Pinocchio di Manganelli… C'è in vista il mare magnum della teoria letteraria, che transita, anfibia, tra le case editrici e l'università, con il suo carico di fascino coinvolgente: Calvino tra Bactin, Frye, Leiris, Queneau, Perec; Celati tra Frye e Deleuze (non quello di Différence et répétition ma quello della Logique du sens), la divaricazione tra mito e il sogno l'interesse di entrambi per il Romance. Ecco dunque gli anni Settanta, stretti tra storicismo e marxismo e il mito (di Pavese, Leone e Natalia Ginzburg e che transitano nella Einaudi e poi nella Adelphi e in Bollati Boringhieri), anni che scoprono la comprensione affettiva, il carnevale Bolognese, l'espressività la corporeità, la fantasia. Per Belpoliti i maestri sono Calvino e Manganelli (e in posizione defilata ma non meno importante Comisso e Parise) ma si parla anche di Camporesi, del gorilla Quadrumano di Giuliano Scabia, del Camion di Carlo Quartucci con i testi di Alberto Gozzi. È la Bologna di Penthotal, di Pazienza, della Traumfabrick dell’arrivo del fumetto. E qui si chiude il saggio di Belpoliti ammettendo nell’ultima pagina delle note che «la storia letteraria di quegli anni deve essere ancora scritta e dovrebbe probabilmente includere un capitolo in cui insieme a Tondelli, Palandri, Piersanti, si parli di Andrea Pazienza come narratore»: non un’apologia o una denigrazione «ma un la “storia di un modo di raccontare” che attinge da Celati, Scabia, Camporesi, Roberto Leydi, Gianni Scalia, e poi del rapporto tra utopie politiche e sentimenti, e di altro ancora». Peccato che siamo a pagina 302 e il libro è finito. L’analisi di una ricreazione intesa come un “ritorno partecipativo alle convenzioni” è ancora là da venire (anche se la liberazione della convenzione dallo spettro della retorica deve indubbiamente qualcosa all'estetica della ricezione e alla fusione degli orizzonti di cui invece in sede teorica s’è abbondantemente discusso dagli anni Settanta in qua). Quello che manca invece è l’incastro tra i due piani (teorico e storico). Come negli anni Settanta alla fantasia "ordinatrice", leggera e geometrica di Calvino (la retta, il cristallo) subentri la petite musique da “vita matta” lo raccontano ancora molto meglio i testimoni come Palandri e lo Scòzzari di Prima pagare poi ricordare, che i saggisti.

6 ott 2007

Una fonte per la botte...

Se Jonathan Swift avesse letto l'opera tedesca di cui si parla nella Prefazione a G. A. Junker-Liebault, Théatre Allemand: ou Recueil des meilleures pièces dramatiques, tant anciennes que modernes, qui ont paru en Langue Allemande, Précédé d’une dissertation sur l’origine, les progrès et l’état actuel de la Poèsie Théatrale en Allemagne, 2 Voll., Paris, 1772 (vedi anche Sketch of the Origins and Progress of Dramatic Poetry in Germany, «The Edimburgh Magazine», IV, August 1786, pp. 92-94), ad opera dei suddetti “antologisti”, potremmo forse avere una fonte per la sua celebre Favola della Botte (Tale of a Tub, 1704), magnificamente tradotta da Gianni Celati, che, ormai molti anni fa (si parla del 1998 o 1999) nell’ Hangar di Palazzo Nuovo, mi disse che per trovare un italiano adeguato e paragonabile a quello di Swift stile non poté rifarsi all'italiano del Settecento, quello di Beccaria e Verri per intenderci, ma ebbe bisogno di ricorrere alle Operette Morali del Conte Leopardi. Questo perché la storia letteraria di una lingua si muove seguendo non la cronologia storica, ma gli autori, che se la portano in bocca. Gianni Celati mi regalò allora alcuni suoi testi che forse un giorno pubblicherò su queste pagine clandestine: per ora mi limito a riportare qualche sua parola da un intervento su Swift per far capire qualcosa del suo ammirevole stile e per ricordare di quanta passione, impegno e levità ci sia bisogno per fare buona saggistica, indicando, fra l’altro, il suo Finzioni Occidentali come assoluto modello saggistico, note comprese. È l’unico libro di critica di cui nel 2001 feci un intera sinossi scritta fitta fitta su un quadernino delle elementari. Dopo aver ricordato la recente riedizione della geniale Modesta Proposta, testo il cui lunghissimo tiolo imparai a memoria in quarta liceo, affascinato e divertito, gli lascio la parola:

Oggi parlerò di Jonathan Swift, e il mio racconto comincia quando facevo l'università e mi è venuta la passione per Swift, ma una passione così forte che volevo tradurlo tutto. Avevo poco più di vent'anni, e mi sono messo a tradurre per conto mio quella che forse è la sua opera più stupefacente, intitolata Tale of a Tub, che fino ad allora non era mai stata tradotta in italiano. In realtà dopo sono andato avanti per oltre vent’anni a rifare quella traduzione, che finalmente è giunta in porto ed è stata pubblicata col titolo Favola della botte. Finita l’università ho avuto una borsa di studio che mi ha permesso di passare due anni a Londra, a studiare nella biblioteca del British Museum, e lì quello che volevo studiare e tradurre erano I viaggi di Gulliver, l’opera a cui è legata la fama universale di Swift. Ma anche questa traduzione si è arenata, ed è riuscita a vedere la luce solo due anni fa, soprattutto per via di lunghe rimuginazioni sull'autore che non riuscivano a trovare una conclusione. In breve, tanta è stata la mia passione per Swift, altrettanto forte è sempre stata la mia sensazione di non riuscire ad afferrarlo bene. Più precisamente dirò che, anche se letti e riletti per anni, i suoi discorsi restano elusivi e sfuggenti rispetto ai giudizi e le opinioni che ce ne facciamo…