Ho detto che la critica di Moresco nasce come sfida ma ho anche parlato di una estrema gentilezza che caratterizza ogni suo scritto, una grazia che rende poetiche e miracolose anche le efferatezze dello stupratore di donne gravide, della bambina venduta al porno, della donna senza buchi, di quella avvolta nella carta stagnola e così via nei Canti. Ho usato il termine nel senso che gli conferisce il regista Davide Maderna quando scrive:
Mi viene in mente quella battuta di Nazarin (1958) di Luis Buñuel: la storia di un giovane prete fuori del comune, che vive ospitando prostitute e, ogni volta che riceve delle elemosine le offre ad altri, comportandosi da puro tramite; non possiede nulla, rifiuta qualsiasi ruolo sociale, perfino il ruolo sociale del prete. A un certo punto qualcuno gli chiede: “Ma lei sfida la società, sfida le ingiurie, gli insulti del popolo, dei suoi parrocchiani?”. E lui risponde: “No, io non sfido proprio nulla. Io accetto le cose come sono”. È un personaggio stralunato e non lo dice con boria. Il valore del termine ‘accettazione’ di cui vorrei parlare è un po’ questo: di qualcosa che si contrappone a quel germe di odio, di competizione insito nella parola ‘sfida’.
Moresco accetta di parlare. Non si butta nella mischia per avere il primo posto sotto i riflettori e poi non dire più niente. Un amico mi faceva notare che nell’ultimo aggiornamento della canonica Storia della Letteratura Italiana di Cecchi Sapegno viene dato a Moresco il “giusto spazio” e mi dice “e allora che vuole ancora”. Moresco stesso lo ripete in un intervento al salone del libro e in diverse occasioni. “No, non mi basta”.
Il grande merito, la superconvenienza, per così dire citando Céline in Mea Culpa, che Antonio Moresco poteva portare ad un lettore ventitreenne in procinto di laurearsi in letteratura italiana era di aprire gli occhi su un conflitto culturale in atto, sordo e senza spigoli: lamette da barba affondate nel cotone. Per comprendere Il paese della merda e del galateo il rimando a Pasolini contro Calvino è d’obbligo. Dei due saggi feci una lettura contigua e di seguito ci furono le Lettere a nessuno pubblicate sempre con Boringhieri, dove lavorava Berardinelli come consulente editoriale. Erano il quadro di un paesaggio desolante e la descrizione di un passaggio storico in prima persona. L’euforia per Gli Esordi, l’esplosione dei Canti del Caos, la loro novità creativa attutirono il primo colpo di quei saggi, che, tuttavia, negli anni continuarono a parlare adunando tacitamente non veri e propri interlocutori ma effetti di risonanza che portano più o meno tutti ad una rotazione dell’asse critico del discorso e al riesame di alcuni valori: Calvino, Eco, in primis, ma anche un certo Magris e Del Giudice e poi ancora tanti autori... Sintomatico leggere le diverse recensioni di Pent alla prima e alla seconda parte dei Canti del caos. Nella prima diceva in sostanza che l’autore se la canta e se la suona; nella seconda lodava la serietà e la coerenza del progetto o qualcosa di simile. In ogni caso io nell’accusa di Moresco ci vedevo anche qualcosa della mia generazione; ci vedevo tanta narrativa einaudi (Galiazzo e Bajani ad es.); ci vedevo anche una critica a certi miei racconti usciti sul «Maltese». Aveva colto nel segno, e aveva ragione. Certo prima di lui l’avevano capito altri: Fortini ad esempio aveva notato che Calvino, “l’ottimista all’ombra del potere”, tendeva a ridurre i conflitti e gli antagonismi storico-sociali a mero sistema di conflitti, ma Moresco mi aveva fatto capire in modo concreto quale era il limite di quella idea di letteratura. Me lo aveva fatto toccare con mano con due opere potenti e senza paragoni nel mercato editoriale italiano che si presentavano come una risposta all’impasse denunciata. Molti altri coetanei allora riconobbero la potenza di quella scrittura, la sua novità e anche negli anni di Dottorato, le persone cui parlavo della sua opera si facevano interessate, attente, oppure polemiche, comunque vive. Cosa rara nei corridoi dei dipartimenti. Quando feci conoscere la sua opera ad un amico che insegnava letteratura italiana all’università di Barcellona, quasi immediatamente decise di farla tradurre in spagnolo. Da allora Antonio si ricorda di me come il “motore immobile” e la cosa mi fa spesso sorridere. Queste sono le ragioni personali che mi hanno spinto a cominciare questo saggio e a scrivere questo preambolo. Dalla prossima puntata, i testi nel dettaglio.
Mi viene in mente quella battuta di Nazarin (1958) di Luis Buñuel: la storia di un giovane prete fuori del comune, che vive ospitando prostitute e, ogni volta che riceve delle elemosine le offre ad altri, comportandosi da puro tramite; non possiede nulla, rifiuta qualsiasi ruolo sociale, perfino il ruolo sociale del prete. A un certo punto qualcuno gli chiede: “Ma lei sfida la società, sfida le ingiurie, gli insulti del popolo, dei suoi parrocchiani?”. E lui risponde: “No, io non sfido proprio nulla. Io accetto le cose come sono”. È un personaggio stralunato e non lo dice con boria. Il valore del termine ‘accettazione’ di cui vorrei parlare è un po’ questo: di qualcosa che si contrappone a quel germe di odio, di competizione insito nella parola ‘sfida’.
Moresco accetta di parlare. Non si butta nella mischia per avere il primo posto sotto i riflettori e poi non dire più niente. Un amico mi faceva notare che nell’ultimo aggiornamento della canonica Storia della Letteratura Italiana di Cecchi Sapegno viene dato a Moresco il “giusto spazio” e mi dice “e allora che vuole ancora”. Moresco stesso lo ripete in un intervento al salone del libro e in diverse occasioni. “No, non mi basta”.
Il grande merito, la superconvenienza, per così dire citando Céline in Mea Culpa, che Antonio Moresco poteva portare ad un lettore ventitreenne in procinto di laurearsi in letteratura italiana era di aprire gli occhi su un conflitto culturale in atto, sordo e senza spigoli: lamette da barba affondate nel cotone. Per comprendere Il paese della merda e del galateo il rimando a Pasolini contro Calvino è d’obbligo. Dei due saggi feci una lettura contigua e di seguito ci furono le Lettere a nessuno pubblicate sempre con Boringhieri, dove lavorava Berardinelli come consulente editoriale. Erano il quadro di un paesaggio desolante e la descrizione di un passaggio storico in prima persona. L’euforia per Gli Esordi, l’esplosione dei Canti del Caos, la loro novità creativa attutirono il primo colpo di quei saggi, che, tuttavia, negli anni continuarono a parlare adunando tacitamente non veri e propri interlocutori ma effetti di risonanza che portano più o meno tutti ad una rotazione dell’asse critico del discorso e al riesame di alcuni valori: Calvino, Eco, in primis, ma anche un certo Magris e Del Giudice e poi ancora tanti autori... Sintomatico leggere le diverse recensioni di Pent alla prima e alla seconda parte dei Canti del caos. Nella prima diceva in sostanza che l’autore se la canta e se la suona; nella seconda lodava la serietà e la coerenza del progetto o qualcosa di simile. In ogni caso io nell’accusa di Moresco ci vedevo anche qualcosa della mia generazione; ci vedevo tanta narrativa einaudi (Galiazzo e Bajani ad es.); ci vedevo anche una critica a certi miei racconti usciti sul «Maltese». Aveva colto nel segno, e aveva ragione. Certo prima di lui l’avevano capito altri: Fortini ad esempio aveva notato che Calvino, “l’ottimista all’ombra del potere”, tendeva a ridurre i conflitti e gli antagonismi storico-sociali a mero sistema di conflitti, ma Moresco mi aveva fatto capire in modo concreto quale era il limite di quella idea di letteratura. Me lo aveva fatto toccare con mano con due opere potenti e senza paragoni nel mercato editoriale italiano che si presentavano come una risposta all’impasse denunciata. Molti altri coetanei allora riconobbero la potenza di quella scrittura, la sua novità e anche negli anni di Dottorato, le persone cui parlavo della sua opera si facevano interessate, attente, oppure polemiche, comunque vive. Cosa rara nei corridoi dei dipartimenti. Quando feci conoscere la sua opera ad un amico che insegnava letteratura italiana all’università di Barcellona, quasi immediatamente decise di farla tradurre in spagnolo. Da allora Antonio si ricorda di me come il “motore immobile” e la cosa mi fa spesso sorridere. Queste sono le ragioni personali che mi hanno spinto a cominciare questo saggio e a scrivere questo preambolo. Dalla prossima puntata, i testi nel dettaglio.
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