10 dic 2007

sicilia verde irlanda: il festival, il cortile dei marchesi, sannelli

Si è concluso ieri con la lezione di Andrea Cortellessa e le letture incrociate di Sara Ventroni e Aldo Nove il festival "Tutto il resto è poesia" che ha avuto luogo dal 2 al 9 dicembre nella splendida cornice barocca del palazzo municipale di Caltagirone, il posto con più chiese, ceramica, e scale al mondo. La Las Vegas dei presepi, con persone che per un euro e cinquanta ti invitano ad entrare in botteghe dove espongono rappresentazioni di ogni tipo, giganti e mignon; presepi in cotone, viventi, meccanici, in ferro, tradzionali, coi pupi, in terracotta, in ceramica. S. Maria del Monte domina dall'alto la celebre scalinata che, salendo, non concede di trovare cadenza e passo. Turi Volanti e Ballarò espongono in permanente al museo di Arte Contemporanea e nei caruggi (li chiamano come a Genova) può capitare d'incontrare nel saliscendi punti invece di strutturato livellamento, pianura, interni, architetture che nella loro sostanza arrivano a comunicare epifanie improvvise, chiarimenti di senso che si esperiscono solo intravedendo l'anima dei luoghi. Un anima che non appartiene al qui e ora del posto, ma istituisce un'analogia profonda, un incontro. A me è capitato nel cortile dei marchesi di Santa Barbara, ammirando l'asimettria delle aperture circolari del palazzo in rapporto all'altezza del palazzo e alla diagonale del cortile. Era come un Piranesi caduto nel pozzo... un acquario d'ombra, e io dentro. Sono grato al festival organizzato dall'intaprendente Josephine Pace, sotto la tutela ideale di Maria Attanasio, per avermi dato la possibilità di saggiare l'epifania del cortile dei marchesi di santa barbara e nel contempo conoscere l'opera meritoria di alcuni piccoli editori, che con il loro lavoro offrono la vera alternitava al mercato generalista. La Gepas di Orazio Parisi, di Avola, ad esempio, o le milanesi edizioni Il Faggio di Franco Ambrosio, o la Rosa rossa/il raggio verde di Vitaldo Conte e infine la Altavoz di Caltagirone (che propone tra gli altri titoli il poeta algerino Habib Tengour, ben tradotto da Manuela Cardinel). Ho avuto modo di parlare un poco del rapporto tra editoria e poesia, dicendo che tale rapporto è serenamente allo stremo, ma che non è quello l'importante. La mia personale idea di un'era che spesso definisco affetta dalla "sindrome Fausto Zafferoni", mi pare trovi conferma in chi da anni lavora incessantemente per un risultato. A proposito, a scoraggiore nuovi poeti, o, se abbastanza decisi, a fecondarli, indico spesso il nome e l'esperienza di Massimo Sannelli che considero il poeta insieme più attivo e consapevole della sua generazione, di intensità sempre sconcertante. Consiglio di leggere attentamente quanto scrive e anche tutto il suo sito; considerare che mancano le pubblicazioni accademiche, poi leggere ancora che "occore perdere anche il proprio nome" e guardarsi dentro. Paragonare il probabile vetrino, la coltivazione di microbi che avete (abbiamo) in serbo nel freezer e chiedere perché la vostra (nostra) esile biologia virale dovrebbe infettare un mondo impermeabile, mentre un mondo già all'età del ferro, ruota da quindici anni mutando pelle, squassandosi in eruzioni, tremando emozione che vibra.

7 dic 2007

lo scrittore e la traiettoria unica

La grandezza della scrittura ha un rapporto con la grandezza della storia che ci consegna. Così, Camon, perentorio, a spiegare che i tempi del minimalismo sono molto lontani. E spiega: «Nell’opera e nella vita di Giuseppe Pontiggia (1934-2003) c’erano dieci-quindici storie: guerra, dopoguerra, penuria, boom, comunismo, consumismo, fine del comunismo, impero americano, crisi dell’impero americano, terrorismo interno, terrorismo internazionale, avvisaglie dell’Islam. Oggi invece si ragiona di storie, di trame, di plot, di fiction, sull’importanza della narrazione di per sé, del raccontare storie. Invece, dice Camon, “La situazione oggi è tale che non si può non ascoltare-guardare la storia: come nel felliniano Prova d’orchestra, la grande palla demolitrice ha battuto sul muro portante del nostro edificio sfondandolo, non possiamo non guardare il buco, la minaccia. È in ballo non solo il senso di quello che scriviamo, ma anche il senso di quello che siamo”.
Ma la storia è quella delle cinque giornate di Milano, gli ultimi trenta anni del secolo scorso, su cui c’è più presa? «“La situazione oggi è tale che non si può non ascoltare-guardare la storia”. Siamo in crisi d’identità. Perciò abbiamo, vattimianamente, una “scrittura debole”». Allora ci si domanda, perché esistono opere e scrittori importanti, destinati a discussione, e a memoria? A proposito Ferdinando Camon è molto chiaro: «Non è solo questione di riuscita estetica delle loro opere, ma anche di stabilità della storia dentro la quale vivono e scrivono: questo appare più chiaro se andiamo a ripescare autori che non ci sono più, Moravia (1907-1990) [ma anche Piovene (1907-1974) e Bilenchi (1909-1909) Pavese (1908-1950)] Pratolini (1913-1991), Tobino (1910-1991), Bassani (1916-2000), Volponi (1924-1994), Parise (1929-1986): vivevano e descrivevano un’esperienza coerente, le loro opere formano un blocco. Tra gli ultimi grandi autori dotati di questa coerenza e questa grandezza unitaria, ci sono Primo Levi, Rigoni Stern, Fenoglio. Il loro essere-per-sempre ha un prezzo: non erano visti quando si faceva il punto su un momento della letteratura, un quinquennio o un decennio. Non ricordo un solo convegno letterario a cui sia stato invitato Levi o Rigoni o Tobino o Fo. La Storia della letteratura italiana più diffusa nelle nostre scuole, per tutta la seconda metà del secolo scorso, quella di Natalino Sapegno, per ben 43 edizioni non dedicava una riga a Primo Levi. Non lo vedeva proprio. Non sapeva che esistesse. Sapegno rimediò alla lacuna inserendo Levi con la formula: «È forse il più grande scrittore italiano del secolo». Ma se era il più grande, come faceva a ignorarlo per mezzo secolo?Lo scrittore e l’opera destinata a durate si pone di traverso rispetto alla storia, si confronta con la storia in una dialettica più ampia, scopre valori e li confronta. Lo scrittore di romanzi secondo Camon vive una “crisi di identità” e deve invece avere ben chiaro almeno un elemento: «Sappiamo soltanto una cosa: che dobbiamo capire chi sono [gli scrittori] e fargli capire chi siamo». Il gioco a nascondere del postmoderno è finito ma ci ritroviamo nel dominio del curriculum, nella posizione e condizione post-coloniale che ho tentato di azzardare parlando di Saviano o della Bahatt: “la novità può venire da tutte le parti dell’orizzonte, Islam, Stati Uniti, Cina, Terzo Mondo, Quarto, Est europeo, Patagonia, Africa… Più una biografia è sbalestrata, più è autorevole. Il Nobel di quest’anno vive a Londra, ma ha lavorato nello Zimbabwe ed è nato in Persia, attuale Iran: se gli togliete la Persia, gli togliete il Nobel”. Doris Lessing effettivamente ha questo problema. Ricordate cosa si diceva a proposito dell’abbaglio dei cinque cubiti? Solo che adesso, dopo aver avuto bisogno di premiare gli autori dell’alterità, promuoviamo chi con tale alterità aveva convissuto da tempi “non sospetti”. Ancora una volta il premio come istituzione spiega gli artifici e l’esistenza del canone, il suo senso profondo, il suo essere un termometro, giusto o sbagliato, del clima culturale di un periodo, un’istantanea del clima. Chissà come sono rimasti, nella foto, Mariolina e la sua Squadra? E il termometro, dove ce lo nascondiamo?