24 set 2007

Es war einmal… Noventa - Fortini

Esistono giochi crudeli. Talvolta inutili, talvolta no. Esistono gli appelli in classe per contare i presenti, esistono le antologie. Sfogliando l'ormai vecchiotta antologia Garzanti di Gelli-Lagorio accanto alla vistosa esclusione di Gozzano (da anni annotata sulla prima pagina che contiene l'elenco dei nomi, tra Saba e Govoni) credo di scoprire oggi la mancanza anche di Giacomo Noventa. Poi mi accorgo che ero io che a matita avevo tirato una riga sopra il suo nome. Ora la cancello. Una giustificazione per allora: forse non lo credevo un poeta italiano. Ma quando leggo Fortini che lo traduce, capisco che il mio "canone" s'è perso un altro pezzo importante. Noventa all'appello che feci molti anni fa era assente, oggi lo riapprezzo grazie ad una serie di letture convergenti tra cui oggi segnalo il rencente saggio di Valentino Cecchetti che, dopo Adriano Olivetti, Giacomo Noventa e il socialismo magico (Bibliotheca), torna nuovamente ad occuparsi di Noventa con Una polemica sul frontespizio. Noventa e Giuseppe De Luca antimoderni, pubblicato quest'anno per l'editore Nuova Cultura. Per lo stessso editore ha pubblicato Tre studi sulla recezione di Péguy in Italia negli anni Trenta e una recente Introduzione agli studi culturali. (Nuova Cultura) che mi piacerebbe leggere. Cecchetti è autore anche di Cento Romanzi (Fazi) e Roberto Calasso (Cadmo).
Ora il testo.

Es war einmal… di Giacomo Noventa

Es war einmal ein Dichter,
Dessen namen keiner ehrt:
Von Menschen und von Dichtern
Zeigen Namen nicht den Wert.

Nach dem Sieg wurde er gerufen
Zum König vom deutschen Land.
Den Krieg wurde er berufen
Zu rühmen in manchem Band.

“König”, sagte nun der Dichter,
“Gott schütze dir deinen Sieg.
Jeder Deutsche sei dein Dichter,
Mir fiel mein Freund in dem Krieg.

Er war in dem Dorf geboren.
Wo auch ich geboren bin.
Und er ist für dich gestorben,
Lasse mich weinen um him!”

Der König lässt ihn nicht weinen,
(Kaiser kennen nicht diese Not)
“Die heute im Deutschland weinen,
Die begegnen morgen den Tod!”

So starb einmal ein Dichter,
Dessen Namen keiner ehrt:
Von königen und von Dichtern
Zeigt dieses Maerchen der Wert.

C’era una volta un poeta (trad. di F. Fortini)

C’era una volta un poeta,
Quel suo nome onore non ha;
ma né di uomini né di poeti
dicono i nomi la verità.

Quando vinta ebbe la guerra
il re dei tedeschi lo chiamò
ed in più tomi quella sua guerra
di cantare gli comandò.

“Sire, ti salvi Dio la vittoria,
(rispose il poeta così)
canti ogni tedesco la tua gloria…
A me in guerra un amico morì.

Il paese dove era nato
ha veduto anche nascere me.
Lasciami dunque piangerlo,
ora che è morto per te”.

Il re non vuole che pianga
(quel bisogno, chi regna non lo sa):
“Chiunque in Germania oggi piange,
domani morirà”.

Così una volta è morto un poeta.
Quel suo nome onore non ha;
ma dice di re e di poeti
questa favola la verità.

20 set 2007

Recensire un editoriale tv. prosa lirica

Politici condannati fuori dal parlamento. Pare ragionevole, non anarchia. Sarà anche un po' brusco dire un vaffanculo che ci porta un po' sul piano di "Elio e le Storie Tese" o Masini, a seconda dei gusti... però, però con infelicissima, involontaria, grottesca piaggeria del potere, colpevolmente confondere il terrorismo con quanto oggi accade, rimescolare le carte in tavola con finto senso storico; e fare tutto questo dal servizio pubblico, come servizio d'opinione, fa veramente accapponare la pelle... Sentite qua. L'umana superficialità miope, il pressapochismo, il farsi affascinare dalla ripetizione di un infelicissimo "grilletto"... peccati d'intelligenza mortale. E poi, l'appello al senso di prudenza di responsabilità, "evitiamo di creare vittime del fanatismo"... E poi, poi far salire invece il grado del pathos, ultimo rivolo di gabrieldannunziano, evidenza estetica della verità. Come a dire vuoi dei morti eh? No che centra, io volevo i politici condannati fuori dal parlamento. Pare anarchia ma assomiglia alla legge.

Periferia Pavese International suicide

Quest’ estate in Spagna ho comprato un numero di «Camp de L’arpa» del novembre 1979 dedicato a Cesare Pavese. Articoli di G. Mario Golodoff, J. E. Ayala-Dip, Robert saladrigas, Macelo Choen eccetera…sfogliando quelle pagine, pensai a quanto scriveva Wisława Szymborska nelle sue Letture facoltative: "L’Europa è un continente piccolo, diviso in piccoli stati, per di più. Si può dire che a ogni passo vi s’incontra un confine. Questa è ormai la specificità della nostra Europa, questa è la sua irripetibile bellezza…"
E d’altronde poi... Cinese e Hindi insieme fanno 1.100 milioni di parlanti. Le lingue occidentale più diffuse, Inglese e spagnolo, insieme neanche 700. L’ Arabo lo parlano 220 milioni, il Bengali, 190 milioni; il Portoghese, circa 180 milioni, Francese, 180 milioni, Russo, 170 milioni, Giapponese, 127, Tedesco, 100, Coreano, 78, Vietnamita, e Italiano 70 milioni, Polacco, quasi 50 milioni.
Sento spesso dire in giro che l’Italia è un paese minore. “Minore, minore… minore per forza” dico io. Le stime pubblicate da «Veranstaltungsskript von Christian Lehmann» e da «Ethnologue» nel 2005 parlano chiaro. Demograficamente parlando la struttura dell’immaginario dovrebbe conformarsi nel futuro secondo tutt’altri canoni rispetto a quelli cui siamo abituati. Le masse spaventano la reazione,: bisogna consolidare il canone; ma poi avvedendosi al solito che la forma della replica è la farsa, tutti ben felici di transitare latinità, dal formaggio ai grattaceli. La versione soft, la “meraviglia” e il “possesso” e poi, passo passo verso un auspicabile “negoziato”, tanto per rifarsi a tre termini chiave di Stephen Greenblatt.
Immaginiamo di comparare, con metodi empirici, il campo letterario dei tre ultimi paesi della lista di cui sopra, il Vietnam, la Polonia, l’Italia. Una sorta di dialogo umanistico in forma di “cimelio”. Tre intellettuali che discutono i valori per il nuovo millennio e della storia loro e dei loro paesi negli ultimi trent’anni, mettendosi in gioco in maniera personale, presentandosi e parlando dal crollo delle ideologie, delle utopie, della rivoluzione francese, dello stato costituzionale, del dialogo interreligioso, dei valori estetici, del Novecento, della morale sessuale, di quello che preferiscono insomma, così, a braccio, magari in forma breve, quasi aforistica… Ne verrebbe fuori un libro se non altro curioso per i tre rispettivi bacini.
E splendido bersaglio per i critici dei rispettivi paesi attratti da un boccone di così facile lettura: è nel contratto dover spiegare ad “altri” che non sanno o in ogni caso e per forza di cose sanno meno. Una bella tentazione per ogni scrittore di quel genere di fiction che è la saggistica. […] Andando più in giù nella lista di «Ethnologue», ai piani più bassi, tutte le lingue dell’Africa, il continente anche linguisticamente più sfracellato. Penso in particolare lo Hausa, che presenta una letteratura davvero interessante. Ma quando troverò il tempo di leggere capolavori lontani e sconosciuti: chi pubblicherà ( o Ha pubblicato) Muhammadu Garzo e Abubakar Imam; Abubakar Tafawa Balewa e Zaynab Alkali. O i poemi di Okot p’Bitek e di Sa’adu Zungur? E soprattutto, cosa più importante, saprò ascoltare? Riflettere su quanto in fondo l’Italia si senta “meglio” di Vietnam e Polonia. I bookmaker sarebbero tutti a favore dei campioni del mondo, dello stato più ricco, ma quante volte siamo capitolati?
Riguardo alla provincia universale, alla Polonia, e alla mia Spagna di «Camp de L’arpa» riporto infine da Imperfetta Ellisse una poesia di Jaroslav Mikolajewski, poeta nato a Varsavia nel 1960 tradotta dal polacco da Lorenzo Pompeo ed Eliza Piotrowska. Il titolo è “Cesare Pavese” e ovviamente tratta dello scrittore nato all’inizio di settembre novantanove anni fa a Santo stefano Belbo. Niente pettegolezzi, ha detto l’ultima volta. E ancora per un anno gli va bene.

Cesare Pavese”

Collina, vigne e la densa polvere della strada
Che sempre più dura si scioglie nella nebbia del mattino.
Un uomo con gli occhiali si sdraia sul ciglio
sotto una vite morta e rimembra
il paesaggio nascosto dietro le umide nubi. Alza la testa
soltanto quando i germogli secchi che gli solleticano la nuca
sono caldi e il sole ha spazzato via la nebbia dalla strada e dalle colline.
Tutto è rimasto uguale, solo la luce è diversa
ricorda un ragazzo di quella stessa terra
osservava gli animali e la gente sui campi.

Respirando il profumo delle foglie fumanti l’uomo cammina
verso la città dietro la collina. Quelli attorno ai quali passa,
non si distraggono dal lavoro, non volgono lo sguardo
dalla strada. Neanche le donne fanno caso al cielo
e scoprono i fianchi al sole, come grappoli d’uva
assorbono il pomeriggio.

Quando in periferia
sente sotto i piedi l’asfalto duro, l’uomo
pensa a se stesso come un mare, che non genera niente,
nel quale il futuro è già morto e sepolto.

3 set 2007

I premi: polemiche bilanci. Le scarpe gialle di Fruttero e Claudel

Tempo di veleni e di premi, di indignazioni e cronache, di fastidi. Campiello e Viareggio. Nel primo caso il poeta e giornalista Mario Baudino propone l'inversione della cinquina scelta dalla giuria proponendo Fruttero, Zaccuri, Bugnaro (d'accordo ma propongo un ex equo tra i due secondi). Nel secondo caso c'è solo da leggere il carteggio on line del premio Viareggio per capire il clima in cui si gioca il tutto. Berardinelli si dimette, Ficara e Rasy sono tra i dieci firmatari della lettera di protesta indirizzata al sindaco. Franco Loi con le sue Voci di osteria (Mondadori) se l'era gia battuta dichiarando di non voler parteciare alla gara, i tre aspiranti vincitori per l'opera prima Simona Baldanzi (1977) Paolo Colagrande (1960) (già vincitore del "Campiello opera prima") e Paolo Fallai (1959) sono in inbarazzo per essere venuti fino alla serata per niente. Finita la stagione, un bilancio, pensando anche allo Strega. La vittoria di Amanniti mi pare abbia rivelato e consacrato un salto nel campo dei valori economici ed estetici (la breccia, però era di Veronesi), poi salta agli occhi il successo di una scrittrice di forza e maniera, Milena Agus (seconda anche al Campiello) una macina-tam-tam-"libro da niente"- che fa la gioia di Nottetempo e assicura qualche futuro. I giorni innocenti della guerra di Mario Fortunato è interessante per ragioni che ora non dico ma che hanno a che fare con la "postcolonialità" di Saviano, incautamente introdotta e che attiene anche la Vestaglia Blu di Simona Baldanzi. Ma di ciò diremo. Preferisco tacere invece di Le stagioni dell'acqua di Laura Bosio e de Il profumo della neve di Franco Matteucci in concorso allo Strega e della vincitrice del Campiello Mariolina Venezia (Mille anni che sto qui" Einaudi) che avrebbe dovuto essere stracciata dal Romolo Bugaro di Il labirinto delle passioni perdute (Rizzoli) e da Alessandro Zaccuri con Il signor figlio (Mondadori). Venendo alla poesia, credo di preferire Michele Mari e la sua "Ladyhawk" al "marmo" di Silvia Bre e anche nella saggistica mi dissocio dalle votazioni e propendo decisamente a favore de il Testo Visivo di Agamben della piccola editrice Marinotti piuttosto che con la solita Einaudi-piglia-tutto.
Venendo infine al tanto patito Viareggio, Filippo Tuena l'ha spuntata sul forse più blasonato (e a me sempre simpatico) Ermanno Cavazzoni. Il romanzo di Tuena non l'ho letto ma conosco le sue poesie. Sull'intelligentissimo e meritorio sito "Nonleggere" potete ascoltarlo mentre ne legge. Vi invito a notare il nome dell'editore che pubblica i Quattro Notturni (La collana "Le Remore" di Giuseppe Aletti) e notare la solita sproporzione tra due linguaggi, uno che è sul mercato, e uno no. Mi stupisce poi vedere che tanta parte di quella scrittura che vende così tanto è fatta da persone che, da subito, di primo acchito, d'isitnto hanno praticato quella scrittura che vende così niente. Gli esempi si sprecano, dagli anni di Pirandello a quelli di Baudino, Fois e Paola Mastrocola, tanto per citare i primi tre nomi che mi vengono in mente. Cosa diceva Croce dello scrivere poesia dopo in vent'anni? Se aveva ragione lui lo si dica a chiare lettere.
Ripenso infine a Vespa intrvisto l'altra notte disquisire di scarpe gialle con il vincitore morale del Campiello. Ironizza sulle calzature. Sta bene, ne sutor ultra crepidam, ma mi viene in mente anche un aneddoto poco conosciuto che riguarda Dino Buzzati. Sorpreso mentre guardava una fotografia a colori di Paul Claudel, il poeta e drammaturgo e diplomatico francese, il pingue Claudel contro cui Celine aveva (a ragione) schiumato la sua bile, si era sciaguratamente fatto ritrarre con un ginocchio a terra, sul viale di un giardino, nell’atto di cogliere un fiore da un cespuglio. Buzzati, uomo di attenta eleganza, commentò: “Però ha le scarpe gialle”. L’occhio dell'interlocutore corre alle sue, di scarpe; anche l'arguto Rinaldo De Benedetti le aveva gialle. Buzzati cercò di dissipare l’imbarazzo, osservando che Claudel, un poeta, avrebbe dovuto stare più attento. L'imbarazzo delle scarpe, ciclicamente ritorna, come a ricordare che in tutti i giochi c'è sempre qualcuno cui "vogliono fare le scarpe"...

2 set 2007

Ancora al Sud: il giovin Saviano e gli altri.

Dalla Sicilia alla città di Basile, Della Porta e Matilde Serao. Sotto l’egida bonaria di Raffaele la Capria e di Enzo Golino (ma esiterà poi, l’egida?), come vanno le cose? Se penso all’abisso che separa l’intransigenza offensiva del “provinciale cuneese” Giorgio Bocca (Napoli siamo Noi, Mondadori, 2006) mi rendo conto che “l’armonia” è davvero “perduta”, per parafrasare un libro di La Capria uscito nello stesso anno. Eppure, tra le grandi città, Napoli è oggi quella in cui il panorama letterario pare più fiorente. O quello che oggi ha maggior portata di “capitale simbolico”. Troppo facile dire che l’esordio di Saviano (che come numeri supera di gran lunga i numeri dell’esordio di Brizzi) “tira su” tutta quanta un’area geografica, e che sposta le attenzioni, gli equilibrii, i temi: Gomorra arriva su un terreno editoriale e contenutistico molto preparato: quello dei “disertori” pubblicati nell’omonima antologia del 2000 nella collana Stile Libero per la cura di Giovanna De Angelis. Che comprende Antonio Pascale (1966) Giosuè Calaciura (1960), Antonio Franchini (1958) Maurizio Braucci (1966), Diego de Silva (1964), Davide Moranti (1965). Lasciamo perdere i forse troppo sponsorizzati Erri de Luca, o Marosia Castaldi e ricordiamo invece i policentrici irregolari e colti, come Gabriele Frasca (1957) o più “miltanti”come il citato Braucci ed il fulmineo e vulcanico Lello Voce (1957), animatore indiscusso di un movimento di “democratizzazione poetica” non da poco quale lo "Slam Poetry". Tra i narratori di territorio segnaliamo almeno Peppe Lanzetta (1954) e Giuseppe Montesano (1959). Tra i giovani Piero Sorrentino (1978) e “the big one” ovvero: il giovane autore di Gomorra, che da qualche tempo anche firma regolarmente pezzi e reportage per l’«Espresso».
Nel numero del 23 agosto parla della sua ossessione per la “questione meridionale” e cita Salvemini, Giustino Fortunato e Ernesto Rossi. Pensatori che del sud avevano capito tutto. Tra i politici cita Berinotti come unico politico recatosi a Casal del Principe e ricorda con rispetto l’Msi legalitario di Almirante. Come a dire: salviamo il radicalismo della base, la spinta che muove a compiere l’atto, accettando le gioie (il successo) e i dolori (la scorta, e la paura) che ne conseguono. Per quanto mi riguarda ammiro Saviano e credo che lui sia il primo scrittore post-coloniale italiano. Non è una boutade: chi legga l’articolo del colloquio con Gianluca di Feo può sentirlo, anche nel suo modo di riproporre la questione, importantissima.
La gloria, per gli antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della fama, cominciava a prendere aspetti paurosi. Un orrido mostro che possiede tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. Saviano suppongo potrebbe affrontare e meditare ogni giorno la questione. Il suo “differente posizionamento” non è da cercarsi nei riferimenti a Pamuk, Rushdie, ma nel fatto quasi unico nella letteratura scritta in Italia negli ultimi anni, non solo di un intellettuale “protetto”, in pericolo per quello che ha detto, ma anche di uno scrittore liberato della scrittura. E anche per questo Saviano lo definisco post-coloniale. Mutatis mutandis tale liberazione era toccata anche a Gavino Ledda, che quando andavo a scuola si faceva leggere alle medie o al primi anni delle scuole superiori; lo stesso sta succedendo a Saviano, già "adottato" in molte scuole. Saviano dice che non è la scrittura che libera lo scrittore. No. È il lettore che rende libero lo scrittore. Il lettori liberano, distruggono la censura, l’omertà. Chissà se anche lui dopo il successo ed un possibile film cercherà l’intransigenza incomunicativa e bucata di un Aurum Tellus? Non credo, in ogni caso, si vedrà. La storia rilassa e Pirandello aveva parlato più di una volta del «piacere della storia». «Nulla di più riposante della storia, signori» aveva esclamato un suo personaggio. «Tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi. Nulla v’è di certo. Mentre nella storia tutto è determinato, tutto è stabilito.» E ogni effetto segue obbediente alla sua causa con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale ecc. ecc. Rilassa meno, la storia, se qualcuno ha l’ansia di fartici passare.