30 nov 2007

Il belgio, Borghezio e la pietra filosofale.

Non so perché negli spogliatoi della piscina, con l’avvocato si finì a parlare di Borghezio e della faccenda dei treni disinfettati dagli extracomunitari. Il giorno dopo ritrovo il grand’uomo della lega sul volo per Bruxelles e lo scrivo all’avvocato. “Peccato non avere il disinfettante”. E lui: “fai le puzze”. Dopo due giorni di convegno ad Anversa e mezza giornata a Lovanio, in aeroporto al check in, ancora Borghezio. Questa volta ho finito i soldi sul cellulare, allora con due colleghe del convegno anche loro ritorno sullo stesso volo, vado al Pizza Hut, in allegria. Una birra, sigaretta fuori e poi all’improvviso barcollo, rientro nell’aeroporto, guadagno una sedia, dolori lancinanti al fianco sinistro, impallidisco, sudo, le mani formicolano, vista scura, ballo l'occhio. Le colleghe chiamano un medico e mi portano ombrello e i bagagli al Meda Luchthavendokters del Bruxelles Airport, dove mi diagnosticano un attacco acuto di calcoli. Niente di epico ma quelli volevano tenermi e io avevo alcuna intenzione di essere ricoverato, tanto meno lì. Il Dr House sconsiglia: “il reviendra”. Ma è possibile firmare e fuggire mostrando il biglietto aereo per ricevere indicazioni su dove andare: “floor three, left, gate sixty-eight. Forty-five euros, please”. Pago, vado, sbaglio e imbocco per i voli extraeuropei superando senza sospetti una coda di africani e cinesi in coda con spiegazioni goffe e un milione di “sorry”. Torno indietro verso un’enorme “EU” circondata da stelline su fondo blu e imbocco la corsia giusta. Qui la cosa è più rapida ma devo ancora passare i metal detector e i raggi x per i bagagli a mano, più una serie interminabile di scale mobili. Quando credo di essere allo stremo un cartello minaccia “Gate 60-70 time expected 10-15 min.” e una sfilza di tapis roulant si srotola in uno spazio enorme, una distesa deserta, che scorre in automatico, come in un disegno di Buzzati. Io e la mia carta d’identità scaduta da un giorno vediamo sfilare i grandi numeri, sudando, verso il 68. All’imbarco, dietro una scrivania posticcia blu elettrico un ragazzo sorride complice come fossi uno che acciuffa per la rotta di collo il volo di ritorno che tiene su la tresca con l’amante e dice il mio nome, quasi fossi atteso per cena: “Mr. A.a. I guess…” “Of course”, ansimo, “di corsa”. A bordo ritrovo Giulia e Francesca, le colleghe che pietosamente mi avevano dato una mano e mi accomodo raccontando della faccenda. La mia situazione, palese tra le ultime file del volo che seguono la storia dell’avventura ospedaliera del ritardatario, desta anche l’attenzione del mio vicino, cordiale, ben piantato, segnato da un taglio fresco che dalla fronte si sposta per tratti irregolari lungo la dorsale del naso, a croste irregolari. È cordiale, del sud, molto scuro. Parliamo di gusto. Con il mio accento piemontese faccio qualche battuta sulla Lega, lui ride. Poi mi racconta che si è fatto male riparando il muso di un muletto. La sua ditta ha sede a Torino e affitta macchinari in tutta Europa. Quando si guastano a lui tocca partire ed andare a metterli a posto. Ha sentito che non ho voluto ricoverarmi e mi dice che anche lui ha rifiutato i punti. “Tanto va a posto”. Poi mi mostra anche la cicatrice di una scheggia di metallo in una mano che però aveva dovuto togliere perché era quasi arrivata al tendine. Uno dei tanti segni del lavoro che si fa. L’iniezione di Toradol, i 40 mg di piroxicam e il mio anonimo e cordiale interlocutore garantirono un buon volo. Entrambi in viaggio di lavoro, entrambi abbastanza soddisfatti nonostante l’infortunio, dormiamo. Nobilitato dal raffronto penso con autoindulgenza a quanto è forte il senso di colpa dei poveri intellettuali che hanno scelto di non fare la voce grossa, di rimanere uguali a tutti. Lui mi dice di non preoccuparmi per i calcoli: al cognato camionista dopo un paio di attacchi glieli hanno tolti e adesso sta benissimo. Problemi legati al lavoro, autotrasportatore o aspirante saggista è lo stesso. Così mentre m'assopisco ripenso al cammello azzurro che si affaccia sulla piazza della stazione di Anversa a presidio di uno zoo di inizio secolo, ad “Antwerpen” la poesia di Ford che Eliot generosamente considerava tra le migliori in assoluto sulla prima guerra mondiale («For there is no new thing under the sun, / Only this uncomely man with a smoking gun»); al convegno di Genova e a quello appena passato grazie a cui ero su quel volo, a Sigfried Sassoon imitato da Levi e a quella generazione parallela che cercando una cultura comune e si trovò a combattere su fronti opposti due volte nel giro di nemmeno quarant’anni. Mentre mi assopisco torna anche Montaigne e il suo viaggio in Italia in cerca di terme e il capitolo Dell’Esperienza che chiude il terzo e ultimo volume dei Saggi :

"Mais est-il rien doux, au prix de cette soudaine mutation; quand d'une douleur extreme, je viens par le vuidange de ma pierre, à recouvrer, comme d'un esclair, la belle lumiere de la santé: si libre, et si pleine: comme il advient en noz soudaines et plus aspres coliques? Y a il rien en cette douleur soufferte, qu'on puisse contrepoiser au plaisir d'un si prompt amendement? De combien la santé me semble plus belle apres la maladie, si voisine et si contigue, que je les puis recognoistre en presence l'une de l'autre, en leur plus hault appareil: où elles se mettent à l'envy, comme pour se faire teste et contrecarre!" (ed. it. Adelphi, p. 1464)

La filosofia dell’esperienza di un sedentario viaggiatore che cercò il confronto e la differenza a dispetto di tanti piagnistei. Dentro, un sorriso di gratitudine per quel misterioso piccolo mondo sospeso a novemila metri, Borghezio incluso: «Pour m’estre dés mon enfance, dressé à mirer ma vie dans celle d’autruy…» (p. 1439).

9 nov 2007

neo settantasette

Dopo il Settanta di Belpoliti torno sull’argomento riportando (da «Sagarana» n. 28) un pezzo di Lucia Annunziata dal suo nuovo libro 1977 - L'ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino, 2007 . Perché abbia interessato di più il trentennale del 1977 che il ’67 non è facile dirlo; forse perché il movimento del 1977 è un fenomeno nazionale rispetto all’internazionale 1968, come ricorda Marco Grispigni in 1977 (manifestolibri, 2° edizione 2007), e poi perché si pone in modo radicalmente differente rispetto al ’68: l’imperativo è “soddisfare i bisogni” e lasciare che il confine tra necessario e contingente sfumasse nell’ironico, nel contraddittorio, nello sfottò. La società della comunicazione che domina il decennio successivo è nata lì, i suoi valori non sono poi così lontani; l’intransigente suffisso post- caratteristico dei Settanta si volge in pochissimi anni nell’algido Neo-: un'epoca apparentemente molto distante, è in realtà contigua. L’ossessione per l’io era dietro l’angolo, appena lasciato il corteo...
Ritrovo sui giornali il nome di Gustave Le Bon, uno dei filosofi preferiti di Mussolini. La sua Psicologia delle folle ha ancora il “tiro narrativo” di un best sellers alla Rifkin; stupisce però che potesse avere tanta ragione negli anni Venti e tanto torto una cinquantina di anni dopo. Negli anni Settanta l’idea di folla è cambiata radicalmente: ha scoperto il principio di “collettività” e insieme quello di “individuazione”; le persone si sono guardate in volto invece di rivolgersi ad un palco. Ed è stato quello che è stato; le basi del postmoderno saldamente poste, iniziava il dominio del media, della visibilità, dell’affermazione presente. Ancora negli anni Cinquanta per un’artista morire sconosciuto, incompreso dalla sua epoca, era una prospettiva plausibile o almeno possibile: un valore non riconosciuto nel presente poteva attendere futuro. Oggi quest’attesa di futuro è del tutto azzerata. Avendo trionfato il pop, anche a noi toccherà di essere scoperti e consumati in quindici minuti di fama.

Da Lucia Annunziata, 1977 - L'ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino, 2007

(...) Il movimento del '77 nasce con un'acuta consapevolezza dei media. O meglio, nasce all'interno dei media e con i media al suo interno.
La rivoluzione piú potente di quell'anno - e quella che per molti versi avrebbe avuto effetti piú lunghi - è proprio la scoperta e invenzione della mediaticità. La destrutturazione del linguaggio della comunicazione è anch'essa comunicazione.
La produzione intellettuale di quell'anno è monumentale, non solo per quantità ma per la continua sollecitazione che innesca. Delle radio e dell'uso dei quotidiani abbiamo detto. Va aggiunta la sperimentazione: la piú interessante e proficua è quella che nasce dalla rivista "Attraverso" fondata da un collettivo di cui facevano parte Franco Berardi (Bifo), Stefano Saviotti, Maurizio Torrealta e che si rifà ad Antonin Artaud e alla sua teoria del linguaggio corporale, alla separazione dell'arte nella vita del processo rivoluzionario, dell'intelligenza tecnico-scientifica. La rivista è un modello per molte altre che ne riprodurranno il linguaggio, e di cui la barra separativa è ancora oggi il simbolo. C'è poi "Zut", rivista dada-situazionista romana, curata da Angelo Pasquini, che usava parodia e paradosso come destrutturazione: il gruppo di "Zut" crea il Cdna (Centro diffusione notizie arbitrarie), incaricato di diffondere notizie inventate di sana pianta capaci talvolta di produrre eventi veri.
Nello stesso filone ci sono poi " Oask ? ! " degli indiani metropolitani, la napoletana "Wam" e la romana "Abat/Jour". I Circoli del Proletariato giovanile avevano invece "Viola", nata nel 1976, rivista dura della rabbia giovanile underground. Nel marzo 1977 le si affianca "WoW" di Dario Fiori, presentata come "il foglio dei circoli proletari giovanili in decomposizione", e si reclamò "WoW totoista" in critica al maoismo ancora imperante in molte altre esperienze, inclusa "A/tra-
verso". L'elenco è sterminato: ogni gruppo tendeva a fare comunicazione in proprio, per delimitare strettamente la propria area.
Lo stesso atteggiamento privatistico si ritrova nei consumi culturali: una ricerca di separatezza assoluta dai sentieri della cultura maggioritaria, anche di quella ribelle nata nel '68. Il movimento fa suoi alcuni "testi" classici della controcultura, come quelli della protesta pacifista e radicale americana, da Bob Dylan ai Fugs, i Jefferson Airplane, Country Joe, Frank Zappa, Joni Mitchell e il supergruppo Crosby, Stills, Nash e Young; ama i cantautori in rotta di avvicinamento all'impegno politico, come Francesco Guccini (fin dai primi testi scritti per i Nomadi) o Fabrizio De André e ancora Francesco De Gregori o per altri versi Edoardo Bennato. Ma canta soprattutto la canzone militante, di lotta, intrecciata strettamente alla canzone popolare - anche di sapore internazionalista, basti ricordare gli Inti Illimani.
Il repertorio basico è costituito dagli autori classici già colonna sonora degli anni sessanta: Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli. "E chi può affermare che un sampietrino non fa arte?", scriveva Ivan Della Mea. "Può servire De Gregori? Non ho dubbi: che cominci però anche lui a prendere le pietre, a guardare come sono fatte e a lanciarle. Irrobustisce il bicipite e l'accordo di chitarra si strappa piú duro". A metà degli anni settanta e quindi nel pieno del '77 questi autori saranno raggiunti da altri, come Claudio Lolli (Ho visto anche degli zingari felici) o il duo Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi. Nessuno piú di Manfredi e Gianco saprà dare voce allo spirito del '77 con canzoni-manifesto come Zombie di tutto il mondo o Dagli Appennini alle bande (una sorta di mistica del clandestinismo), Ultimo mohicano ("...sampietrino in mano", proseguiva la canzone), Non si paga (un inno alle autoriduzioni nei cinema e ai concerti), Avanguardo (satira del perfetto militante di Pdup e Ao).
Nelle canzoni di Manfredi c'è la sintesi perfetta del '77: amore, violenza, sogno, allucinazione e una satira autoironica feroce, come nella canzone Compagno si, compagno no, compagno un cazzo. Oppure in Ma chi ha detto che non c'è: "Sta nel fondo dei tuoi occhi, sulla punta delle labbra, sta nel mitra lucidato, nella fine dello Stato, nella gioia e nella rabbia, nel distruggere la gabbia, nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro, nella fabbrica deserta, nella casa senza porta..."
Al cinema si guarda ancora Fragole e sangue di Stuart Hagman, realizzato nel 1969, vero film culto sul '68 a Berkeley. Ma a Roma è il tempo della fioritura dei cineclub, il Filmstudio, il Politecnico e l'Officina. Cinema d'autore e carbonaro, insomma. Nell'agosto 1977 il vulcanico Renato Nicolini dà vita alla rassegna cinematografica dell'Estate romana, nella Basilica di Massenzio, e realizza con successo un'operazione di ricucitura culturale tra generi: tra il cinema alto dei classici di Hollywood e del cinema italiano e quello degli horror di serie B, delle commedie scollacciate, dei polizieschi, dei peplum, degli spaghetti western.
Fra i libri spopola, accanto agli amatissimi Roland Barthes e Jürgen Habermas, ogni sorta di testo e libello dell'editore Savelli: da Porci con le ali al celebre In caso di golpe. Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo, di guerriglia e di controguerriglia, con prefazione del compagno Vincenzo Calò. Sottotitolo: Quello che i golpisti sanno già e che ogni democratico dovrebbe sapere.
Il movimento insomma è impegnato soprattutto a raccontare se stesso, per se stesso. Questa passione per la "fotogenia" di sé non è narcisismo, ma un atto rivoluzionario, anzi la rivoluzione in sé. Cos'altro sono infatti tutte queste invenzioni e sperimentazioni linguistiche, le esibizioni della violenza, se non l'anticipazione di "altro" attraverso la distruzione del presente per mezzo del linguaggio che lo rende reale? In quegli anni, scrive Aldo Bonomi, "molti compagni sono arrivati alla convinzione che occuparsi di comunicazione contenesse già un progetto. Significava comunicare un immaginario, fare propaganda all'interno dei processi di trasformazione in atto".
Ecco una differenza enorme con il '68, che si era anch'esso molto piaciuto, ma che non si era mai guardato: preferiva farsi guardare. Voleva essere "capito" e "ammirato", non per com'era, tuttavia, ma per quello che faceva. Il '68 aveva la missione di cambiare il mondo ed era dunque impegnato a infiltrarsi nei media per cambiarli (in questo senso non è un caso che quell'anno abbia prodotto una massa enorme di giornalisti). Il '77, che non crede nelle istituzioni e dunque nel cambiamento, è invece impegnato soprattutto a raccontarsi, come atto di affermazione di indipendenza dalle convenzioni di cui le istituzioni rappresentano l'organizzazione finale.
Un movimento che si specchia e si autorappresenta: che nessuno dunque può davvero raccontare, tanto meno capire.
In questa identità c'è il seme della follia: quello che gli altri, cioè la stampa, dicono del movimento diventa la comparazione fra quello che si vede di sé nel proprio specchio e quello che vedono gli esterni. Il '77 compra ossessivamente i giornali per leggere delle proprie manifestazioni, guarda la Tv per vedersi sfilare, ma ogni volta è una delusione, una deformazione: dalla mediazione del giornalista, persino di quelli molto vicini, rimane sempre deluso. Lo specchio dei media, per il movimento, è sempre deformante. I giornalisti infatti danno giudizi, scelgono, scrivono, riorganizzano la realtà. Il movimento vuole invece una rappresentazione continua e diretta: non a caso l'unica forma di narrazione giornalistica in cui si riconosce e che accetta è la rubrica delle lettere di "Lotta continua", cioè una sorta di flusso di autocoscienza ininterrotto, senza che nessuno ci metta le mani. E, a ben vedere, un desiderio che anticipa Internet e i blog - un po' come l'altro strumento popolare di allora, la radio.
Del resto, potrebbe essere altrimenti? I giornali sono istituzioni, e quale istituzione potrebbe comprendere il movimento? I giornalisti dunque randellano (come "L'Unità"), aizzano (come il "Corriere"), denunciano (come il "Giornale Nuovo") e, soprattutto, spiano.

8 nov 2007

Il “signor rosmarino”. (Moresco saggista III)

Alle missive che compongono le Lettere Nessuno se ne potrebbe aggiungere una, forse la più radicale scritta, indirizzata a Papa Benedetto XVI.

"Caro Benedetto XVI, scusi il modo diretto con cui mi rivolgo a lei, senza i soliti appellativi che si usano in questi casi. Non è per mancanza di rispetto ma per un bisogno di verità e confidenza con la sua persona prima ancora che con la sua figura istituzionale. Lei di certo non mi conosce. Perciò mi presento. Io non sono né un ateo devoto né un devoto ateo. Sono solo uno scrittore che in un suo libro ha immaginato un papa che, appena eletto, dopo duemila anni, scioglie la Chiesa".

Questo è il “gesto estremo” che Moresco chiede a Benedetto. Lasciare che la Chiesa conosca la sua morte, per poter risorgere veramente. Questa è la prova. Questa è l’oltranza, questa la fede richiesta da Moresco. Fin troppo facile deridere quest’idea associandola a quella dei santoni che ti fanno crepare dicendoti che ti risveglierai su un pianeta riscaldato da Proxima centauri. Fin troppo facile far finta di non comprendere la portata simbolica “immanente” di tale proposta. Penso alle argomentazioni facilmente confutabili di Oddifreddi e alle più sottili argomentazioni di Ferraris sulla “reale presenza” e altre aporie della fede come consumo. Dietro o sotto questo secondo discorso, apparentemente formale, ci sta il vero problema di un cadavere trafugato o assunto, carne e ossa, nell’invisibile. Bene se non ci crediamo più, alla lettera, bisogna dirlo. La vita eterna non è la resurrezione e se si vuole davvero risorgere, testimoniare che la resurrezione è data bisogna avere il coraggio non di praticare un suicidio, ma di accettare, la morte. Un disperato gesto di fede: «Se anche la Chiesa si vuole salvare, si perderà nei tempi che ci aspettano». (sul concetto di accettazione vedi quanto detto nella parte II)

"Mi rendo conto di quanto sia ingenuo e abnorme quello che le sto chiedendo. E so bene che mi si potrà rispondere: nessun uomo può sciogliere la Chiesa, perché è stata istituita dal Figlio di Dio. Ma c'è bisogno di liberare tutta la spiazzante potenza resurrettiva del cristianesimo. Bisogna che si liberi dall'interno del suo vuoto una potenza nuova ancora sconosciuta, proporzionale a quanto ci sta succedendo. Che si liberi la potenza creativa e resurrettiva dell'umanità femminile che è imprigionata anche al suo interno. Che la Chiesa non rimanga bloccata in una sterile guerra di posizione tra le altre potenze secolari imperiali. […] La salvezza non ci può venire solo dalla politica, dall'economia e dalla tecnica. La sfida è estrema. Bisogna liberare una enorme forza latente che -forse- è imprigionata da qualche parte. Bisogna pensare l'impensato perché l'impensato è esattamente ciò che ci sta succedendo. L'idea più estremistica e grande del cristianesimo è quella della resurrezione. C'è bisogno di questo estremismo in questo passaggio di specie su questo pianeta sovrappopolato e stremato. Servirebbe un gesto estremo, impensabile, irradiante, compiuto da chi avrebbe la potenza esemplare per farlo".

L’idea heidegerriana “di procedere verso l’impensato che bisogna pensare”, ripetuta alla nausea dai tanti alfieri della reazione (che pensano e scrivono continuamente il già pensato e già detto) qui si carica di una luce “immanente” sconosciuta ai tanti che di questa celebre frase si sono impossessati. La portata vertiginosa delle parole di Moresco però eccede ulteriormente questo piano che ancora in qualche modo potrebbe definirsi critico e storico quando sfocia nell’idea del sogno come creazione. Creazione di una forma antropomorfa consustanziale al senso antropologico e umano della profezia come “incarnato” “in figura” ancor prima che “in narrazione”. Infatti anche la forma della lettera sparisce, sparisce l’interlocutore, sparisce l’emittente. Resta la visione.

"Ecco, io vorrei arrivare con i miei sogni fino ai sogni del Papa, entrare nel regno dove i sogni del Papa si uniscono al resto della massa elettrica e spirituale di tutti i sogni sognati. Forse, di tanto in tanto, bisbiglia qualcosa nel sonno, anche se nessuno la sente. O forse qualcuno sì, chi può dire… Forse, quando è tutto buio e silenzio nelle sue stanze, un signore alto si avvicina al suo letto, si siede sulla poltroncina lì a fianco. La guarda dormire, in silenzio, assorto. Ascolta le parole che le sfuggono dalle labbra mentre sogna. Chi sarà mai questo signore? Come si chiamerà? Ma sì, diamogli un nome, un nome dolce, gentile, chiamiamolo il signor Rosmarino, perché lascia dietro di sé un leggero profumo di rosmarino. È quello che avverte anche lei la mattina quando si sveglia, e magari lo scambia per qualche profumo liturgico emanato dai suoi abiti durante la notte. Il signor Rosmarino la guarda in silenzio, nella penombra, ascolta le sue parole sussurrate a fior di labbra nel sonno. Poi, alle prime luci dell'alba, così come era arrivato, senza che nessuno lo veda, si allontana".

Dire con la voce la visione, una figura del sogno che nulla, assolutamente nulla condivide con il surreale, è un progetto destinato a debordare i confini di ciò che si può intendere come “lettera aperta a” o “discorso critico a partire da…”: è un’idea e una pratica di creazione destinata a resistere al di là delle proponibilità o della reale possibilità che propone. Nel contemplare questo inesausto “fiorire” di figure emblematiche si prova lo stesso senso di spiazzamento profondo e imbarazzante che si può provare di fronte ad alcune lettere di Giordano Bruno o di Tommaso Campanella; quelle lettere che partono con un fine politico e critico ma sfondano in tutt’altro, in un invenzione unica, allegorica, illustrata, inusitata, di nuova potenza (invenzione poi tradita e perversa del mistero e dell’iniziazione di una tradizione risorgimentale e massonica, settaria). Moresco ripete di continuo la necessità di fronteggiare questa mutazione radicale, questo salto di specie in arrivo e insieme già arrivato; non a caso Bruno e Campanella attraversavano una sconvolgente mutazione epistemologica, e con le loro opere abnormi furono i testimoni, prima di Galileo, di tale profondo sconvolgimento. L’apparentemente umile, laico buon senso sperimentale dello scienziato appoggia sui furori dissennati e sulla dissimulata pazzia di uomini visionari, incapaci di prudenza, di pazzi che profetizzavano mutazioni poi occorse ma allora ragionevolmente imprevedibili; che mischiavano astrologia e magia con scienza naturale, fandonie e verità sensibili. Visoni aurorali, scomposte, partorite da carni abituate al supplizio, in condizioni impossibili. Concludendo, la prospettiva di una liberazione come pensiero e discorso in Moresco mi pare annullata dall’incarnazione. Da un signor Rosmarino qualsiasi, arbitrario, potentissimo e disarmato, che si prende tutto sulle spalle, come un re africano che pedala su una bicicletta da camera per tenere il mondo nella sua orbita: impensabile. Irragionevole come la volontà di un ciabattino calabrese che, dal fondo di una prigione, pretenda di comprendere e riformare il suo mondo, di parlare a papi e imperatore. Un tizio come Campanella che studiava la visione attraverso le anatomie dei bulbi, che fu capace di comprendere che la febbre non era una malattia ma la reazione fisiologica ad un male, che seppe illustrare l’eugenetica e i nessi ecologici tra piante, animali e ambiente; che profetizzò di vascelli capaci di navigare senza vento né remi, di telepatia, di apparati acustici capaci di captare suoni dagli spazi siderali. Un pazzo che fu un poeta straordinario, la cui oltranza riverbera nel Novecento con risultati tra loro molto diversi: la mistica di Rebora frammento lirico 68 (cfr. il sonetto Della Plebe di Campanella), la militanza di Leonetti ("La voce è quella di Campanella e / dei vociani con militanza moderna, / addolcita dei suoni di Bologna", La voce del Corvo) o l’Invenzione di Moresco di cui ho presentato un esempio.

2 nov 2007

Provincia morta. Un poeta di Albisola

Per quanto mi è dato sapere transita impercettibile nel silenzio quasi assoluto il quarantennale dalla morte di un poeta dimenticato. Angelo Barile, nato ad Albisola Marina nel 1888 e ivi morto nel 1967. Vicino in gioventù alla prima Democrazia Cristiana di Murri, dedicò attenzione ai problemi religiosi (negli anni universitari, importante l’amicizia con il barnabita G. Semeria, portavoce del modernismo). Dopo la laurea in giurisprudenza a Genova frequenta corsi di lettere all’Università di Torino. Partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria e tornato dal fronte non si allontanò più da Albisola, attendendo per molti anni alla sua azienda di terraglie. Durante il fascismo era vissuto appartato, ma avverso al regime: venne arrestato dai tedeschi nel ’43 e solo per un caso scampa alla fucilazione. Poeta dalla gioventù decise di pubblicare molto tardi su varie riviste tra cui «Solaria », «Circoli», «Maestrale», «Il Frontespizio». All’impegno politico Barile tornò solo nel secondo dopoguerra, svolgendo un’intensa attività pubblica come amministratore comunale e provinciale. Due anni prima della morte nel 1965 Vanni Scheiwiller decise di pubblicare il libro che conteneva le sue Poesie (1930-1963) (1965) che raccoglie le ormai introvabili raccolte precedenti Primasera (1933) e Quasi sereno (1957) e cui si aggiunge la sezione A sole breve che raccoglie le liriche degli ultimi anni.
Quest’autore mi piace non solo perché conosco e frequento i luoghi in cui e di cui scrisse, ma per il suo aver saputo essere infinitamente meno vistoso del suo concittadino Tullio Mazzotti (1899-1971) e per non avere avuto, in fondo, nemmeno la vanità di creare un livre. Barile negli anni Trenta come gran parte dei poeti della sua generazione ha letto Blake e ha avvertito

«la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore... non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell'intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Poche - se pure - anche a quelli che sono i più bravi. Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze. Facevo mie le parole, non più dimenticate, di Boine: “Bisogna lasciar correre l’acqua, sporcar meno carte, aspettare. Lascia, lascia sbollire, butta via! che le cose importanti son poche e le cose belle rade... non si è padroni che delle cose inutili e le essenziali si fanno da sé, ci violentano».

Quest’idea dell’opera essenziale che si fa da sé, o quasi a scapito dell’autore, “violentandolo”, viene direttamente dalla prefazione a Quasi sereno e mi pare molto importante. Coerente con queste intenzioni Barile costruisce i propri strumenti sintattici e verbali con lo scrupolo quasi didattico che Pasolini indicò in un “ostinata tensione” esercitata sulla lingua per realizzare «il miracolo della fusione... tra sensibilità soggettiva e presenza oggettiva del divino». Tuttavia etichettò Barile come esempio di un «cattolicesimo disperato ed estetizzante» emarginandolo in una zona periferica, tra il pascoliano-crepuscolare e l’ermetico, cui lo avrebbero condannato virtuosismo e indifferenza ai contenuti della storia, messa tra parentesi dalla sua esclusiva tensione alla «purezza». In realtà forse Pasolini non comprese che Barile demandava l’«enorme antefatto della storia» all’«idea di eterno » (come scrive Carlo Bo): un’idea, o piuttosto, un sentimento che egli verificava nello sbriciolarsi del quotidiano entro un’unica cornice privilegiata: la «piccola patria» ligure di Albisola Marina dalla quale non si staccò per l’intera esistenza; e anche per questo volontario isolamento egli poté apparire defilato dalla temperie culturale del ’9oo. In realtà Barile fu del proprio tempo testimone e protagonista (si pensi anche solo a «Circoli», la rivista da lui fondata assieme a Adriano Grande e sovvenzionata da Guglielmo Bianchi; vedi anche F. Contorbia, Lucia Rodocanachi. Le carte la vita, Società Editrice Fiorentina, 2006), ma lo fu nella misura discreta e congeniale alla finezza di sentimenti che lo portò a diventare punto di riferimento e di magistero per molti poeti. «Giudice segreto», lo ha definito sempre Bo in occasione della sua morte e, in effetti, tutto ciò che si faceva a Roma o a Firenze fra le due guerre aveva un’eco immediata nel «piccolo laboratorio» della sua casa. Inutile forse ricordare l’amicizia con il coetaneo Sbarbaro, nata sui banchi del liceo e durata una vita, e il fatto che Montale lo eleggesse a primo giudice dei “rottami” che avrebbero poi costituito il primitivo nucleo degli Ossi di seppia; meno noto forse il legame con Adriano Sansa (Pola 1940) cui scrisse la prefazione a Vigilia (Sabatelli Editore); sindaco di Genova dal 1993 al 1997 condirettore della rivista «Resine» - e autore di Affetti e indignazione (Scheiwiller) e Il dono dell’inquietudine (Il nuovo Melangolo).

Primasera

Accompagnarmi sottobraccio al primo
che passa!
Foresto: a me lo simulo fratello.

Mi sporgo a ogni speranza più leggera
d’incontri, mi sorprendo mentre piego
a spalle immaginate
il capo.
Ora sento da questo
che ogni giorno mi cresce desiderio
di udire voci di stringere mani
di fare insieme a chi trovo, chiunque trovo, la strada,
sento il mio cielo che scolora e presto
si annera.
Un’urgenza affettuosa mi preme.
Da stanche luci di greppi pe’l fitto
del bosco a gradi precipiti calo
trafitto da richiami
a piana terra.
La ripa erbosa mi sfugge, m’afferro
alla pungente carità dei rami.