Dalla Sicilia alla città di Basile, Della Porta e Matilde Serao. Sotto l’egida bonaria di Raffaele la Capria e di Enzo Golino (ma esiterà poi, l’egida?), come vanno le cose? Se penso all’abisso che separa l’intransigenza offensiva del “provinciale cuneese” Giorgio Bocca (Napoli siamo Noi, Mondadori, 2006) mi rendo conto che “l’armonia” è davvero “perduta”, per parafrasare un libro di La Capria uscito nello stesso anno. Eppure, tra le grandi città, Napoli è oggi quella in cui il panorama letterario pare più fiorente. O quello che oggi ha maggior portata di “capitale simbolico”. Troppo facile dire che l’esordio di Saviano (che come numeri supera di gran lunga i numeri dell’esordio di Brizzi) “tira su” tutta quanta un’area geografica, e che sposta le attenzioni, gli equilibrii, i temi: Gomorra arriva su un terreno editoriale e contenutistico molto preparato: quello dei “disertori” pubblicati nell’omonima antologia del 2000 nella collana Stile Libero per la cura di Giovanna De Angelis. Che comprende Antonio Pascale (1966) Giosuè Calaciura (1960), Antonio Franchini (1958) Maurizio Braucci (1966), Diego de Silva (1964), Davide Moranti (1965). Lasciamo perdere i forse troppo sponsorizzati Erri de Luca, o Marosia Castaldi e ricordiamo invece i policentrici irregolari e colti, come Gabriele Frasca (1957) o più “miltanti”come il citato Braucci ed il fulmineo e vulcanico Lello Voce (1957), animatore indiscusso di un movimento di “democratizzazione poetica” non da poco quale lo "Slam Poetry". Tra i narratori di territorio segnaliamo almeno Peppe Lanzetta (1954) e Giuseppe Montesano (1959). Tra i giovani Piero Sorrentino (1978) e “the big one” ovvero: il giovane autore di Gomorra, che da qualche tempo anche firma regolarmente pezzi e reportage per l’«Espresso».
Nel numero del 23 agosto parla della sua ossessione per la “questione meridionale” e cita Salvemini, Giustino Fortunato e Ernesto Rossi. Pensatori che del sud avevano capito tutto. Tra i politici cita Berinotti come unico politico recatosi a Casal del Principe e ricorda con rispetto l’Msi legalitario di Almirante. Come a dire: salviamo il radicalismo della base, la spinta che muove a compiere l’atto, accettando le gioie (il successo) e i dolori (la scorta, e la paura) che ne conseguono. Per quanto mi riguarda ammiro Saviano e credo che lui sia il primo scrittore post-coloniale italiano. Non è una boutade: chi legga l’articolo del colloquio con Gianluca di Feo può sentirlo, anche nel suo modo di riproporre la questione, importantissima.
La gloria, per gli antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della fama, cominciava a prendere aspetti paurosi. Un orrido mostro che possiede tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. Saviano suppongo potrebbe affrontare e meditare ogni giorno la questione. Il suo “differente posizionamento” non è da cercarsi nei riferimenti a Pamuk, Rushdie, ma nel fatto quasi unico nella letteratura scritta in Italia negli ultimi anni, non solo di un intellettuale “protetto”, in pericolo per quello che ha detto, ma anche di uno scrittore liberato della scrittura. E anche per questo Saviano lo definisco post-coloniale. Mutatis mutandis tale liberazione era toccata anche a Gavino Ledda, che quando andavo a scuola si faceva leggere alle medie o al primi anni delle scuole superiori; lo stesso sta succedendo a Saviano, già "adottato" in molte scuole. Saviano dice che non è la scrittura che libera lo scrittore. No. È il lettore che rende libero lo scrittore. Il lettori liberano, distruggono la censura, l’omertà. Chissà se anche lui dopo il successo ed un possibile film cercherà l’intransigenza incomunicativa e bucata di un Aurum Tellus? Non credo, in ogni caso, si vedrà. La storia rilassa e Pirandello aveva parlato più di una volta del «piacere della storia». «Nulla di più riposante della storia, signori» aveva esclamato un suo personaggio. «Tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi. Nulla v’è di certo. Mentre nella storia tutto è determinato, tutto è stabilito.» E ogni effetto segue obbediente alla sua causa con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale ecc. ecc. Rilassa meno, la storia, se qualcuno ha l’ansia di fartici passare.
Nel numero del 23 agosto parla della sua ossessione per la “questione meridionale” e cita Salvemini, Giustino Fortunato e Ernesto Rossi. Pensatori che del sud avevano capito tutto. Tra i politici cita Berinotti come unico politico recatosi a Casal del Principe e ricorda con rispetto l’Msi legalitario di Almirante. Come a dire: salviamo il radicalismo della base, la spinta che muove a compiere l’atto, accettando le gioie (il successo) e i dolori (la scorta, e la paura) che ne conseguono. Per quanto mi riguarda ammiro Saviano e credo che lui sia il primo scrittore post-coloniale italiano. Non è una boutade: chi legga l’articolo del colloquio con Gianluca di Feo può sentirlo, anche nel suo modo di riproporre la questione, importantissima.
La gloria, per gli antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della fama, cominciava a prendere aspetti paurosi. Un orrido mostro che possiede tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. Saviano suppongo potrebbe affrontare e meditare ogni giorno la questione. Il suo “differente posizionamento” non è da cercarsi nei riferimenti a Pamuk, Rushdie, ma nel fatto quasi unico nella letteratura scritta in Italia negli ultimi anni, non solo di un intellettuale “protetto”, in pericolo per quello che ha detto, ma anche di uno scrittore liberato della scrittura. E anche per questo Saviano lo definisco post-coloniale. Mutatis mutandis tale liberazione era toccata anche a Gavino Ledda, che quando andavo a scuola si faceva leggere alle medie o al primi anni delle scuole superiori; lo stesso sta succedendo a Saviano, già "adottato" in molte scuole. Saviano dice che non è la scrittura che libera lo scrittore. No. È il lettore che rende libero lo scrittore. Il lettori liberano, distruggono la censura, l’omertà. Chissà se anche lui dopo il successo ed un possibile film cercherà l’intransigenza incomunicativa e bucata di un Aurum Tellus? Non credo, in ogni caso, si vedrà. La storia rilassa e Pirandello aveva parlato più di una volta del «piacere della storia». «Nulla di più riposante della storia, signori» aveva esclamato un suo personaggio. «Tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi. Nulla v’è di certo. Mentre nella storia tutto è determinato, tutto è stabilito.» E ogni effetto segue obbediente alla sua causa con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale ecc. ecc. Rilassa meno, la storia, se qualcuno ha l’ansia di fartici passare.
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