23 lug 2007

Arance di sicilia: provincia e capitale

«I fatti fisici non hanno realtà, è l'arte sommamente reale» dice Croce nel suo Breviario di Estetica. In una teoria del campo questo non è propriamente vero, anzi. Proseguendo la "proposta velleitaria" di Mozzi che già abbiamo fatto nostra, e tentando di fornire un’elementare mappa meramente geografica del campo possiamo dire che uno scrittore nato e vissuto in Piemonte e uno nato e vissuto in Sicilia partono da presupposti e tradizioni differenti. Sono i diversi i termine della loro dialettica che si appuntano su elementi diversi precostituiti. Vero è che il Gruppo ’63 vide la luce a Palermo ma per quanto ad esempio i percorsi di un Sebastiano Vassalli (piemontese) e un Michele Perreira (siciliano) furono convergenti?. Certo entrambi, e tutto il gruppo tentavano di dare risposte proprio al soffocante provincialismo di una cultura che si era improvvisamente svegliata in ritardo rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Il recupero dell’avanguardia storica e la scoperta del formalismo (nei paesi dell’est già vecchio di settanta anni) rappresenta un effettiva anche se momentanea liberazione da una serie di vincoli oppressivi, tra cui anche la liberazione dal vincolo geografico; e d’altronde per una teoria che invitava a mettere da parte la servitù dal dato biografico ed affermava il primato del letterario come materiale e sistema quale spazio avrebbe potuto avere un’opzione geografica? Quaranta anni fa questo discorso sarebbe parso fuori moda, forse reazionario; andando indietro di altri quaranta anni i futuristi ormai in cattedra probabilmente mi avrebbero dato del “passatista” e “antinazionalista”. Per una “teoria del campo” invece credo che queste elementari considerazioni siano non solo attuali, ma necessarie nel mostrare come il discorso egemonico dell’avanguardia si oppone ai limiti e alle strettoie dell’egemonia “geografica” che tiene in stato di minorità la letteratura italiana, e lo fa partendo e nascendo non a Milano, il luogo dove è più facile fingere cosmopolitismo, ma proprio in un luogo in cui la “cifra territoriale” e più marcata e in cui l’identità geografica è orgogliosamente preservata. Come ad esprimere tacitamente “se il rinnovamento parte da qui” tutta l’Italia farà a gara per essere più avanti di Palermo…”. Onestamente non credo che questo sia stato pianificato nei termini appena descritti, tuttavia così è accaduto. Lasciando da parte la questione veniamo alla descrizione della geografia letteraria siciliana, avvalendoci del prezioso sostegno di “Stylos” della Domenico Sanfilippo Editore, uno delle più valide pagine di cultura nazionali (introvabile nelle edicole del piccolo capoluogo piemontese da cui scrivo). Inutile dire che Verga e Pirandello sono i numi tutelari; ad entrambi si sono votate due generazioni distinte di scrittori. Cosicché, alla rappresentazione della realtà immaginata da Verga, che ha raccontato il suo mondo secondo quanto i suoi personaggi vedevano, si sono indirizzati quanti, da De Roberto a Camilleri, passando per Vittorini, certo D'Arrigo, e Sciascia, hanno individuato nella realtà in sé, nell’esperienza, il dato narrabile; alla rappresentazione della realtà colta da Pirandello, che ha raccontato il suo mondo secondo quanto i suoi personaggi sentivano, si sono volti invece quanti, dal dimenticato Francesco Lanza a Vincenzo Consolo, per il tramite di Bufalino, Brancati, Bonaviri, Salvatore Fiume, hanno invece considerato il solo elemento idealistico, non esteriore all’uomo ma interiore. Accanto o attorno a questi nomi figurano poi una lunga serie di autori viventi che hanno rinverdito i due coté, occupando posizioni mediane oppure innovando la tradizione. Penso ad autori come Silvana Grasso, Silvana La Spina, Roberto Alajmo, Giosuè Calaciura, Domenico Conoscenti, Santo Piazzese, Melo Freni, Evelina Santangelo, il già citato Michele Perriera, e poi i poeti Emilio Isgrò e Nino De Vita, per i quali è valso il senso della realtà irrelata di una Sicilia meno consistente e materica e più immaginata o immaginifica, ai quali va il merito di aver superato la pregiudiziale verghiano-pirandelliana prefigurando nuove soluzioni narrative. Nei decenni del dopoguerra la critica letteraria è stata attentissima agli svolgimenti letterari siciliani anche perché oggi (Camilleri) come cinquant’anni fa (Tomasi di Lampedusa) gli scrittori siciliani sanno essere autori di best sellers o di “opere uniche”, “casi” (Horcinus Orca). Non tanto e non solo la critica siciliana “d.o.c.” (i Tedesco, i Di Grado, i Traina, i Gioviale...) si è dunque occupata di questa letteratura, ma una generazione di critici più giovani non ha risparmiato studi e riflessioni, forse ricordando l’idea di Sciascia che vedeva nella Sicilia i segni di un processo degenerativo destinato ad estendersi a tutto il sistema- Italia (vedi La palma va a Nord). Si pensi ai contributi di Silvio Perrella, Massimo Onofri, Filippo La Porta, Raffaele Manica, Andrea Cortellessa, Domenico Scarpa, per citarne solo alcuni. Resta da chiedersi chiedersi a questo punto se tanto riguardo non sia il frutto maturo del fenomeno siciliano, che riunisce un numero impressionante di scrittori in una cifra pressoché omogenea che ha come costante leit motiv il fatto di parlare della Sicilia stessa, e che ha raggiunto una soglia non più revocabile né trascurabile.
La geografia diventa un elemento che assume un particolare “capitale simbolico” e le insofferenze di provincialismo degli anni sessanta almeno qui, sembrano davvero lontane. E daltronde, se qualcosa hanno davvero insegnato gli anni novanta non è proprio a “valorizzare il territorio”; la diversità, la particolarità, non ha forse insegnato a pensare “g-local”? Il punto è anche la geografia è libero mercato? Da questo punto di vista, considerato tutti i docg e i vari presidi di muffe tradizionali, si direbbe che l’italia sia il massimo del rigore filologico, tanto che non prevede il cosiddetto “panorama freedom” e le foto delle opere architettoniche di Piano, Fuksas, Piacentini, ad esempio, dovranno essere tolte da Wikipedia… e tuttavia mi pare che tutta questa ansia di particolarismo nasconda la volontà di essere rassicurati e preservati per sempre nell'immobilità arcaica e sognante di una Vigata eterna.
Camilleri ha svecchiato la letteratura siciliana tenendo a balia nidiate di nuovi autori che adesso lo scimmiottano, ed ha risvegliato il dialetto (benché quello solo agrigentino) portandolo nella bocca anche di lettori leghisti, ma ciò avviene perchè l'archetipo del buen retiro che avvenga in Sicilia o nella Fargo dei fratelli Choen, è un ememento dall'appeal universale. In questi ultimi dieci anni il "capitale simbolico" della sicilianità è dunque salito ancora, tanto che oggi si direbbe che l'isola stia diventato un “genere letterario”, come le storie di vampiri (di sponda entrambi, Sicilia e vampiri, si trovano nel nuovo romanzo di Flavio Santi). Per scrivere questo genere ovviamente non occorre essere siciliani più di quanto occorra essere vampiri per scrivere Dracula e lo dimostra anche il Nuovomondo del non siciliano Emanuele Crialese, vero e proprio esempio di efficace ricostruzione artificiale di una realtà di appartenenza "emotiva".

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