23 ago 2007

Nori vs. Ammaniti sulle metafore. Critica e vivente (ma anche Gualtieri, O’Connor, Hotakainen, Morena, Michele, mia sorella…)


Tre flash dall’estate. Una notte di luglio con guida apparentemente spericolata ho condotto a casa Morena, una giovanissima costumista teatrale sottopagata che gira l’Italia a cucire spendidi vestiti. Dopo uno o due punch che forse erano rum e cola avevamo parlato del comune apprezzamento per la poesia di Mariangela Gualtieri e del teatro Valdoca che lei aveva visto dalle sue parti e forse ci aveva anche lavorato, lassù, tra i laghi. Avevamo letto qualcosa dalla sua copia di Fuoco Centrale e poi cambiando discorso mi aveva detto che cercava il testo sullo scrivere di Flannery O’Connor. Io lo trovo il giorno dopo nella libreria sotto casa, a Milano, in via Cesare da Sesto. Alla fine del mese in spiaggia mia sorella dopo anni di letture dedite a una notevole quantità di best sellers americani, da un po’ di anni legge e apprezza Ammaniti che quest’anno vince lo strega e lei è contenta. Io gli dico che recensivo Fango in prima edizione per la rivista universitaria un bel po’ di anni fa e provo un discorso teorico, ma pare comunque abbia vinto lei. Oggi invece a fine agosto mi scrive Michele, un amico che in primavera mi ospitò a Trento in occasione di un convegno su Primo Levi; mi parla di Paolo Nori. Stà leggendo tutto quello che trova di suo dopo Noi Farem Vendetta, romanzo storico che, passata la breve stagione flamboyant della working novel― e pensando al prossimo libro di Antonio Scurati ― potrebbe essere la nuova tendenza del triennio. Gli dico che di Nori conosco poco e come in molti altri casi mi sono fermato ai primi due libri pre-Einaudi, ovvero all’ormai consolidata vicenda di Learco.
Ma di strada nel frattempo Nori ne ha fatta. E tanta. Senza ragione letta la mail riprendo in mano l’edizione del Cielo dei Violenti dei miei genitori, letta molti anni fa e mi convinco che la letteratura intreccia le persone viventi che leggono. Leggere significa diventare parte dell’intreccio grande, «come gocce dell’Oceano, come voti». Queste metafore non a caso introducono il discorso di cui si parla oggi: al solito, critica e vivente. E caso, appunto. Dal sito dell’infaticabile Rossano Astremo riporto l’articolo di Paolo Nori Colpi di tuono e lezioni di sguardo (da «Il Manifesto»,13 gennaio 2007) che spiega l’intreccio dei casi di cui sopra:
«Mi sembra che il modo migliore per dare un'idea del romanzo Colpi al cuore, sottotitolo Come fu girato il padrino, del finlandese Kari Hotakainen (Iperborea 2006, pp. 353, euro 16, traduzione di Tullia Baldassarri Höger Von Högersthal), che ho letto recentemente, sia paragonare l’uso delle sue metafore con quelle del romanzo di Niccolò Ammaniti Come Dio Comanda (Mondadori 2006, pp. 496, euro 19), che ho letto subito dopo. Fare proprio due elenchi. In Ammaniti: «Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine» (p. 7). «Ci fu uno scoppio assordante, e la zuppiera si disintegrò come se fosse stata colpita da un Cruise e rigatoni, schizzi di ragù e pezzi di plastica si sparsero per un raggio di dieci metri» (p. 102). «Dopo mangiato i tre rimasero in coma sul divano» (p. 103). «Ora che era arrivato il grande momento si sentiva sereno come un samurai prima della battaglia» (p. 187). «Si trascinò attraverso l'appartamento in cui sembravano esser passati i lanzichenecchi» (p. 281). «Era completamente zuppo di sudore e il piumino d'oca gli pesava addosso come se fosse sepolto sotto un quintale di terra» (p. 365). «Crollò sul divano sofferente e cominciò a lagnarsi come se gli stessero facendo una rettoscopia» (p. 398). «Il cancro se lo stava mangiando, proprio come una serpe si mangia un uovo» (p. 403). «E lei, a quel punto, come un capretto, un Bambi o quel diavolo che era, cominciò ad agitarsi, a urlare, a dimenarsi, a farfugliare» (p. 429). «Dovevano avere una sessantina d'anni. Una era alta e affilata come una mantide religiosa e l'altra era piccola e verde come un goblin. Il goblin si trascinava dietro un quadrupede che sembrava un diavolo della Tasmania» (p. 439). «Aveva visto i gabbiani volteggiare come avvoltoi che hanno puntato una bestia morta» (p. 446). «Poggiò una mano sul cofano come se fosse stremato da una lunga maratona» (p. 455). «Girò la testa verso la televisione con la velocità di una scimmia da laboratorio sotto oppio» (p. 477).
In Hotakainen: «Gli uomini sono fatti di carta, di acciaio non ce ne sono mai stati» (p. 177). «Coppola si sentiva come uno scolaretto tenuto per mano a cui viene spiegato per la prima volta come si monta un modellino» (p. 190). «Sonny era emozionato, sopra le righe, come una pustola che si irrita al minimo contatto» (p. 216). «L'uomo tenta di chiamare i figli e i nipoti, e la sua voce cigola come la sedia su cui è seduto» (p. 262). «L'uomo aveva replicato che se nel film c'era quella musica e c'erano anche dei massacri sarebbe andato a vederlo più che volentieri e ci avrebbe portato anche il cognato, che non è un patito di film d'azione ma più un tipo da pesca sul ghiaccio» (p. 264). «Per quarant'anni Keränen era sempre riuscito ad andare in bagno quando gli scappava, ora si sentiva come se entrambi i bisognini stessero per finirgli nei pantaloni senza il permesso del legittimo proprietario» (p. 269). «Le donne sono creature indomabili. Sono elettricità e acqua» (p. 281). «Laatikainen le sembrava una foca pronta a tornare alla sua vita originaria sulle rive del Saimaa. Dal naso e dalle orecchie gli spuntavano i peli, e dalla camicia sbottonata compariva un ciuffo di lanugine grigiastra. A parte il reddito, non vedeva altro che lo distinguesse da una foca» (pp. 288-9). «Il film mi piacque, anche se era fatto male. Brando era il migliore, bisognava ammetterlo. Che sia o meno un brav’uomo, recitare sa recitare. Il suo Vito Corleone era come mia nonna, una persona fragile che dice a bassa voce il fatto suo. La nonna passava le ore sulla sedia a dondolo in soggiorno a rammendare le reti da pesca del nonno. La sedia cigolava, e dalla sua bocca uscivano vecchi proverbi. Non erano regole di vita, erano colpi di tuono» (p. 344).
Adesso, a parte le foche, è singolare che l'esperienza di un mio quasi coetaneo finlandese mi sia più familiare dell'esperienza di un mio quasi coetaneo italiano.
A me sotto i piedi non si è mai spalancata una voragine, non ho esperienza diretta di qualcosa disintegrato da un Cruise, non ho mai visto una persona in coma, né un samurai prima della battaglia, né un luogo nel quale erano passati i lanzichenecchi (né un lanzichenecco), non son mai stato sepolto sotto un quintale di terra, non mi hanno mai fatto una rettoscopia, non ho mai visto serpi che mangiano un uovo, né un capretto, un Bambi o quel diavolo che era agitarsi, urlare, dimenarsi, farfugliare. Non ricordo di aver visto una mantide religiosa e non ho idea di cosa sai un goblin, e tantomeno un diavolo della Tasmania, non ho memoria di avvoltoi che puntano una bestia morta, non ho mai fatto una lunga maratona (neanche una breve), non ho idea della velocità con cui gira la testa di una scimmia sotto oppio.
La carta, i modellini, le pustole, il cigolio delle sedie, la pesca, i bisognini, l'elettricità, l'acqua, le conosco. Le foche poco, ma avevo una nonna che parlava così, con dei colpi di tuono.
Un mio amico con cui avevamo parlato poco tempo fa del fatto che i libri si scrivono con gli occhi, mi ha chiamato ieri e mi ha letto al telefono un pezzo di Flannery O’Connor preso da Nel territorio del diavolo, Sul mistero di scrivere (Minimum Fax 2002, pp. 150, euro 7,50, a cura di Robert e Sally Fitzgerald, edizione italiana a cura di Ottavio Fatica). Oggi sono stato in libreria e ho comprato il libro. Il pezzo è questo: «La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli... Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York, da una signora russa che ha fama di essere un'ottima insegnante. Mi scriveva questo mio amico che per tutto il primo mese non hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, è la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li costringe a osservare le cose».

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