Alain Badiou accusa: “Lo stato non pensa”. Franco Buffoni nel dialogo-romanzo già recensito gli risponde: “lo stato non deve pensare”. In Badiou il significato di concetti come politica, democrazia, stato, sono qualcosa di molto particolare. Lo stato, come la vera politica per Alain Badiou o è singolare o non è. E qui si fanno strada gli aspetti anche più appariscenti e letterariamente interessanti del suo pensiero che la scorsa primavera ho affrontato brevemente leggendo alcuni suoi testi e appocciando alcune sue questioni tra cui le domande: “Lenin è o non è il prosecutore di Marx, Mao è o non è il prosecutore di Lenin, il Termidoro è o non è la Rivoluzione francese?” Badiou non nutre dubbi: le sequenze politiche non mettono mai capo a scansioni omogenee e continue, sono sempre affette da una discontinuità radicale. È lo stesso tema che su un altro terreno Badiou ha posto a proposito di San Paolo: che rapporto ha Paolo con Gesù? Non è forse avvicinabile, dice Badiou in Saint Paul. La fondation de l’universalisme (1997) al rapporto che Lenin intrattiene con Marx? È la stessa domanda, che Gramsci si poneva nei suoi Quaderni del Carcere, ma Badiou la risolve in maniera opposta, mettendo in rilievo, cioè, la funzione inaugurale di San Paolo, e così “salvandolo”.
Badiou ha orrore della democrazia mercantile, la democrazia elettorale, quella che si esplica con un voto elettorale che è come scegliere al mercato. In questo modo, la politica, la democrazia e l’eguaglianza non sono nient’altro che pure appendici dello Stato, forme di manifestazione di quella figura che sopprime il pensiero collettivo nell’Evento che è lo Stato parlamentare. C’è un altro modo, invece, per ricongiungere democrazia e eguaglianza ridando nel contempo significato ad entrambi i concetti: si tratta di intendere la democrazia come pura esposizione del collettivo sulla scena pubblica; un’ esposizione che non tollera che si applichino ad esso prescrizioni particolari, vale a dire enunciati non egualitari. Insomma, per Badiou la democrazia è egualitaria nel suo senso più profondo proprio perché permette di sfuggire alle codificazioni particolaristiche cui è costretto a ricorrere lo Stato come entità. In Metapolitica (Napoli, Cronopio, 2001) egli propone la dismissione delle categorie di “immigrato”, “arabo”, “francese”, in quanto parole che «rinviano necessariamente la politica allo Stato e lo Stato stesso nella sua funzione più essenziale e più bassa: il novero non egualitario degli uomini» (ivi, p. 110). Di questo passo si arriva anche alle ragioni della soppressione del nome, all’anonimato come garanzia di difesa e presa di posizione politica. E tuttavia penso che dovrà passare ancora un bel pezzo perché “Uomo bianco sfruttatore” venga percepito come un insulto razzista sanzionabile e non come una verità storica. Penso dunque con inquietudine al bastone di Achmed puntato contro gli spettatori, alle conseguenze estetiche del trascurare la forza degli archetipi occidentali, ai recenti problemi legati al padiglione africano, e non solo, della Biennale di Storr; problemi legati al fatto di pensare che non abbiamo altro che la storia. La storia, l’impresentabile curriculum del mondo, non va confusa con le sue bellissime e misteriose rovine. L’arte si vuole storia dopo le ubriacature formali e decostruzioniste, ma Pascal e Pirandello, per motivi differenti, se la riderebbero. Il primo screditando la storia con la solita questione del naso di Cleopatra, il secondo opponendogli una più efficace storia di maschere nude. Badiou parla di stato come evento richiamando l’Heidegger “timpaneggiato” in L'être et l'événement (1988) ma non lo cita direttamente e, anche se non lo dice, mi pare di capire che salvi S. Paolo infondo proprio in nome della maschera. Penso allora ad Achmed il filosofo (Genova, Costa e Nolan, 1992) come ad un epigono di Ubu passato per Beckett - ma qualche tratto è davvero bello come quello su che cos’è un “bel falso allarme”(p. 34-37. Mi stupisce però che poco si noti dell’ironica forse involontaria nostalgia che suscita tutta questa messinscena di maschere. Eppure in Il secolo (Milano, Feltrinelli, 2006) Badiou ha scritto cose pregevoli anche su Pirandello… ma forse la coscienza della maschera, che così bene ha agito in lui, non lo logora perché il tempo si rinnova e perché, oltre il siciliano, nel suo teatro c’è molto di Brecht. Ma qualcosa del suo pensiero e del suo teatro, o meglio del rapporto che trascorre tra i due, lo devo ancora definire, e mi disturba. Da meditare e leggere ancora.
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