Accade che un libro, al di là delle premesse su cui è fondato, susciti nel lettore un particolare entusiasmo. È quello che mi è accaduto leggendo l’ultimo libro di Franco Buffoni, già segnalato tra i consigli di lettura per l’estate. Difficile stabilirne il genere: l’autore lo ha descritto come un romanzo ma la definizione non mi pare del tutto calzante, e personalmente lo trovo più affine alla saggistica memoriale, sebbene presentata in forma inusuale. Si tratta infatti di testo dialogico tra l’autore e il nipote Piero, un giovane di poco meno di trent’anni che si definisce marxista, partecipa ai cortei anti globalizzazione e simpatizza con i frati di Assisi. Il testo è inframmezzato da poesie o parti di poesie e da diverse lettere: tre al padre, una a Giacomo Leopardi, due al nipote, e una conclusiva, impietosa Lettera di Piero allo zio ― che in una recente presentazione Stefano Raimondi ha saggiamente deciso di leggere come incipit.
“Dio, la guerra, l’omossessualità”, come recita il sottotitolo, sono i temi principali ma, anche se già così ce ne sarebbe da dire, nel libro sono presenti elementi di riflessione che aprono su prospettive per quanto mi riguarda ancora più interessanti: in primis il problema della “falsificazione culturale” e della relatività delle varie “tradizioni culturali” e “civiltà letterarie”. Tra le letture esemplari in questo senso Buffoni cita ovviamente il De Falso credita et ementita Constantini donatione (1440) di Lorenzo Valla ed il Defensor Pacis (1324) di Marsilio da Padova (in cui, riguardo la religione, miglior espressione trova la successiva idea volterrana di “pia frode”), ma anche la parabola di Cecco d’Ascoli che di fronte alla pietas virgiliana e dantesca osò proporre «non pietate ma raxone».
Secondo Buffoni la pietas deve diventare una virtù civile slegata dalla metafisica cristiana, un’ "eredità umana", un valore ateo come lo stato costituzionale di diritto: erede di Mill, Hume e Gladstone quanto di Mosca e Pareto, Buffoni non descrive tuttavia un percorso banalmente “laicista” ma, sulla scia di Berkley, Clarke, Leibniz, Jacobi, Muratori, e Genovesi, si apre al cristianesimo e alle “religioni positive” proprio partendo da una domanda cruciale sulla ragione del male nella vita umana. Pur riconoscendo l’importanza degli amati maestri Fortini e Raboni nello specifico ne prende le distanze quando i due paiono schierarsi a favore del “santo vero” manzoniano, per riallacciare invece i ponti con il genio solitario di Leopardi lettore di Lucrezio e anticipatore della teoria del "tempo profondo" di S.J. Gould; il Leopardi che di fronte al faute de mieux dei terrorizzati “atei devoti” ancora oggi risponde col coraggio della sua Ginestra, «mentre Manzoni, ricordiamolo, dopo la morte di Carlo Imbonati aveva abbandonato gli ideali di Verri e Beccaria per volgersi al cattolicesimo più retrivo, in perfetta sintonia con gli ideali della nuova leadership austriaca» (p. 161). Nell’ottocento di Rosmini e Manzoni concepire un universo non costruito per l’uomo e le sue esigenze era follia. Era questa la solitaria “follia” di Leopardi, una “follia” che con beffa atroce dell’evidenza scientifica storicamente riconosciuta, ci viene ancora fatto passare per “pessimismo”.
Il lettore di questo libro peraltro si trova anche di fronte ad un’autobiografia famigliare e intellettuale, posta però sul piano della distinzione tra stato etico e stato di diritto (e sulle conseguenze derivanti dallo scegliere se stare dall’una o dall’altra parte). Se Montale dichiarava “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, Franco Buffoni, come Sandro Penna, chi è e cosa vuole lo dice a chiare lettere: «Sì sono ateo, omosessuale, illuminista e antiproibizionista. E sostengo il darwinismo materialista scientifico puro» (p. 145). In questo dialogo filosofico, in cui la controparte ha la funzione di “mandare avanti il discorso”, Buffoni esplora quelle zone di reticenza che impediscono un reale progresso nella letteratura e nella società, o il cui valore appare dominante e onnipresente, anche se non ragionevolmente fondato. La traiettoria intellettuale che emerge dalla lettura di questo testo mi pare inedita nel “campo letterario” nazionale o almeno abbastanza rara nel Novecento italiano, anche per l’aperta chiarezza con cui presenta le sue idee, agevolato in questo dall’artificio stilistico del dialogo:
“Dio, la guerra, l’omossessualità”, come recita il sottotitolo, sono i temi principali ma, anche se già così ce ne sarebbe da dire, nel libro sono presenti elementi di riflessione che aprono su prospettive per quanto mi riguarda ancora più interessanti: in primis il problema della “falsificazione culturale” e della relatività delle varie “tradizioni culturali” e “civiltà letterarie”. Tra le letture esemplari in questo senso Buffoni cita ovviamente il De Falso credita et ementita Constantini donatione (1440) di Lorenzo Valla ed il Defensor Pacis (1324) di Marsilio da Padova (in cui, riguardo la religione, miglior espressione trova la successiva idea volterrana di “pia frode”), ma anche la parabola di Cecco d’Ascoli che di fronte alla pietas virgiliana e dantesca osò proporre «non pietate ma raxone».
Secondo Buffoni la pietas deve diventare una virtù civile slegata dalla metafisica cristiana, un’ "eredità umana", un valore ateo come lo stato costituzionale di diritto: erede di Mill, Hume e Gladstone quanto di Mosca e Pareto, Buffoni non descrive tuttavia un percorso banalmente “laicista” ma, sulla scia di Berkley, Clarke, Leibniz, Jacobi, Muratori, e Genovesi, si apre al cristianesimo e alle “religioni positive” proprio partendo da una domanda cruciale sulla ragione del male nella vita umana. Pur riconoscendo l’importanza degli amati maestri Fortini e Raboni nello specifico ne prende le distanze quando i due paiono schierarsi a favore del “santo vero” manzoniano, per riallacciare invece i ponti con il genio solitario di Leopardi lettore di Lucrezio e anticipatore della teoria del "tempo profondo" di S.J. Gould; il Leopardi che di fronte al faute de mieux dei terrorizzati “atei devoti” ancora oggi risponde col coraggio della sua Ginestra, «mentre Manzoni, ricordiamolo, dopo la morte di Carlo Imbonati aveva abbandonato gli ideali di Verri e Beccaria per volgersi al cattolicesimo più retrivo, in perfetta sintonia con gli ideali della nuova leadership austriaca» (p. 161). Nell’ottocento di Rosmini e Manzoni concepire un universo non costruito per l’uomo e le sue esigenze era follia. Era questa la solitaria “follia” di Leopardi, una “follia” che con beffa atroce dell’evidenza scientifica storicamente riconosciuta, ci viene ancora fatto passare per “pessimismo”.
Il lettore di questo libro peraltro si trova anche di fronte ad un’autobiografia famigliare e intellettuale, posta però sul piano della distinzione tra stato etico e stato di diritto (e sulle conseguenze derivanti dallo scegliere se stare dall’una o dall’altra parte). Se Montale dichiarava “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, Franco Buffoni, come Sandro Penna, chi è e cosa vuole lo dice a chiare lettere: «Sì sono ateo, omosessuale, illuminista e antiproibizionista. E sostengo il darwinismo materialista scientifico puro» (p. 145). In questo dialogo filosofico, in cui la controparte ha la funzione di “mandare avanti il discorso”, Buffoni esplora quelle zone di reticenza che impediscono un reale progresso nella letteratura e nella società, o il cui valore appare dominante e onnipresente, anche se non ragionevolmente fondato. La traiettoria intellettuale che emerge dalla lettura di questo testo mi pare inedita nel “campo letterario” nazionale o almeno abbastanza rara nel Novecento italiano, anche per l’aperta chiarezza con cui presenta le sue idee, agevolato in questo dall’artificio stilistico del dialogo:
Tra i tuoi maestri chi non si gingilla? [chiede il nipote]
Te l’ho detto Zanzotto. Ammiro il suo
coraggio nell’affrontare il dato scientifico e lo sforzo di assorbirlo,
inglobandolo nella sua poetica.
Però non lo ami
Amo di più Cattafi, o Caproni…
Continuatore della tradizione illuminista che fonda lo stato di diritto in contrapposizione allo stato etico, Buffoni si oppone dunque con fermezza al potere simbolico e materiale di quelle istituzioni che pretendono di prevaricare la libertà civili, e lo fa affidandosi al modello intellettuale di Richard Rorty e a quella tradizione anglosassone di empirismo e logica che va da Ockham e Bacone e, per venire a tempi più recenti, trova i suoi modelli di riferimento in G. E. Moore ed in tutta quella tradizione “analitica” che parte dal rasoio di Ockham e arriva alla cosiddetta “forca” della ragione di Hume. Sulla scia dei "fondamenti della conoscenza epirica" di A.J. Ayer, rifiutando l’esistenza di poposizioni etiche giustificate: «mi trovo infatti a sostenere che le uniche proposizioni genuine sono quelle della logica e della matematica (la cui verità non dipende dall’esperienza) oppure quelle delle scienze empiriche, (che vengono enunciate sulla base di osservazioni)» (p. 129).
In nome di questa visione atea, che qualcosa deve anche alla consigliata Storia dell’Ateismo di George Minois, Buffoni legge le debolezza umana dei poeti attratti dai grandi miti, dai grandi uomini e dai grandi ideali. Ed è qui che si trova un pezzo di storia letteraria che non trova una scansione così sistematica e chiara nemmeno nei manuali di letteratura. E non si parla del solito abbaglio di Ungaretti per il fascismo: piuttosto, si tratta di ricostruire il fascismo come "categoria dello spirito", ed a proposito Buffoni menziona tanto Isherwood simpatizzante per la Union of Fascist, quanto Auden attratto dalla potenza di Stalin.
Ci sono dunque i phares ma non sono quelli che ci si aspetterebbe da un poeta. Pochi infatti i poeti, “perché la poesia si ama”, molti gli scienziati che in nome della ricerca si trovano a sostenere posizioni "scomode". Appartengono a questo novero coloro che nella storia seppero non farsi sedurre dai totalitarismi etici o chi disertò i “valori eterni” di “onore” e “dovere”. Certo gli ufficiali diplomati e laureati come Vittorio Sereni erano eticamente obbligati al fronte, ma diventare ufficiali significava anche carriera, status e solo rinunciando anche a questa controparte materiale inerente il “fare il proprio dovere” si poteva sottrarsi a quella dinamica storica.
Ma come vederlo allora? Come pensare la diserzione come valore? Raboni analizzando il carteggio Bertolucci-Sereni evidenzia questa discontinuità tra i due: Bertolucci resta soldato semplice e si imbosca molto presto a tradurre il suo Ronsard, Sereni invece risponde “presente!” all’appello ― per poi dolersi nei decenni a venire di non aver potuto rispondere a quell’altro appello, quello della resistenza, che avrebbe dato ad alcuni dei suoi valori di Cameraderie tutto un altro senso. Sì perché Buffoni ci dice di non prendere sotto gamba i valori, per così dire, “della trincea”, che non sono fuffa. Il cameratismo inteso come Camaraderie infatti ha voluto dire molto nell’idea sociale dell’uomo. In guerra si sono criminalmente spesi (e spenti) grandi valori. Bianciardi ricordava che sono sempre i sottotenentini studentelli di vent’anni a portare contadini e operai al massacro. Questa innocenza che guida l’innocenza, la buona fede, il sacrificio, lo spirito di corpo, la solidarietà, “l’allegria”, la vita, i valori umani, tutto questo bene era qualcosa di ben visibile e presente nelle coscienze di chi lo aveva provato sulla propria pelle, e si parla di almeno un paio di generazioni nate tra il ’75 e il ’99 dell’Ottocento. Più difficile cogliere la dinamica per cui questo bene, al soldo dell’etica di uno stato belligerante, si trasformasse in male. Questo è l’osceno. Questo l’inaccettabile, per Franco Buffoni. Ma, ancora, come vederlo? Alcuni ci riuscirono anche in quegli anni, qualcuno, come il Tarchetti di Una nobile Follia, che precorreva i tempi parlando della carneficina della Crimea, ma i più, supini, si bevevano le balle della “religiosa ecatombe” promossa da Croce, la “risvegliatrice degli infiacchiti” di Papini, la “sola igene del mondo dei futuristi” e via dicendo. Pochi, anche tra i professori, dissero di no al duce quando chiese loro di giurare fedeltà al regime (quattordici ne conta Buffoni, aggiungendo Fabio Luzzatto e Piero Sraffa ai dodici analizzati da Giorgio Boatti nel suo bel libro dal titolo melvilliano Preferirei di No, Torino, Einaudi, 2001). Ci furono dunque i “non allineati” come il gruppo di Giustizia e Libertà feondato a Parigi nel 1929, ci furono Arturo Carlo Jemolo e Ernesto Bonaiuti, Ernesto Rossi e Mario Pannunzio ma i più agirono come Sabato Visco e Nicola Pende che, pur riluttanti furono responsabili di avvallare le leggi razziale con la loro autorità scientifica. I casi come quelli del socialista Torquato Nanni (primo biografo di Mussolini per la «Voce» di Prezzolino) che si frappone tra i proiettili dei partigiani e il corpo del fascista “critico e massimalista” Leandro Arpinati, sono memorabili proprio per la loro unicità.
Tuttavia come ho detto, nel libro non c’è solo la storia sociale delle idee ma anche la vita in “prima persona” e l’intreccio strettissimo dei due piani. E questa ultima caratteristica, questo tentativo di procedere in un discorso unitario, mi pare la cifra più originale di questo "romanzo saggistico": c’è la lotta con un padre cattolico reazionario, lettore del «Corriere» fino alla “scandalosa” direzione Ottone che portò Pasolini in prima pagina, un padre ovviamente incapace di accettare l’omosessualità del figlio, che si irrigidisce persino quando apprende che i gesuiti hanno portato gli alunni a vedere il Vangelo secondo Matteo. Un ufficiale che ha combattuto quella che Alessando Natta in un suo libro del 1997 definisce come l'altra resistenza, ovvero la resistenza di chi non prestò giuramento alla “Repubblica Sociale Italiana” di Salò e per questo fu internato nei campi di prigionia tedeschi. Il padre di Franco Buffoni e altri come lui avevano giurato fedeltà al re ed erano insofferenti di quella parola “repubblica”, che non a caso nella parlata lombarda indica qualcosa di davvero residuale, come ricorda Luciano Erba in una sua poesia «Quando andavo a comprare la mostarda / Mia madre mi diceva: già che ci vai / fatti dare un po’ di repubblica, / intendeva gli avanzi quali che fossero / rimasti sul banco del salumiere». (A chi interessasse ricordo che qui può leggere un altro aneddoto su Erba). Il padre, un reazionario cattolico, fervente monarchico educato dai fascisti, viene dunque fatto prigioniero degli “alleati” tedeschi in nome di un “onore” il cui valore sarà disconosciuto nell’Italia post-fascista e si fa due anni come internato nei campi di detenzione tedesca. Liberato dai “nemici” Russi, Americani e Inglesi si trova davanti ad una grnade crisi. Quale poteva esserne il risultato? Purtroppo non un (pur difficile) ripensamento e messa in discussione dei propri valori, ma un cortocircuito dalle nefaste conseguenze…
avendo debordato, voglio concludere ricordando cosa mi ha detto l’autore in occasione della presentazione del libro, nella libreria di un Parco Sempione arroventato dal sole di luglio: "Michaux dice che per comprendere l’intelligenza deve sporcarsi, essere ferita". Ricordo che un tempo volentieri mi affiabiavano il nomignolo “Pig Pen”, come il personaggio dei Peanuts; quanto alle ferite, non posso che stupirmi del meraviglioso funzionamento dei globuli bianchi dell’anima. Quando ci permette di rialzarci.
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