9 ott 2007

Belpoliti e il Settanta che manca

Alla fine del maggio 2002 alla Festa degli Autori di Cuneo presentai il saggio Settanta, di Marco Belpoliti, recentemente definito da Emanuele Zinato come “postmoderno” e “smaterializzante” (p.18); ne riparlai poi nel marzo 2006 all’Università di Salford (Manchester, UK) nel convegno internazionale “Italian Fiction in the Sixties and Seventies”, sponsorizzato dalla British Academy. A Manchester ebbi modo di confrontarmi con Ernesto Livorni e di ascoltare una splendida lezione di Enrico Palandri. In ogni modo, stuzzicato da Zinato riprendo il testo e alcune delle considerazioni scritte allora. Il libro è composto da sette saggi e lettore può trovare in essi il proprio percorso di lettura, oppure mano a mano familiarizzando con i protagonisti, leggere questi saggi come ideali "storie della letteratura" parallele, intese come vicende di quello spazio indefinibile e ideale che definiamo piano della letteratura; piano su cui scorre ed evapora un discorso critico da Belpoliti portato avanti con stile chiaro e di piacevole lettura, bilanciato tra Calvino e di Celati (la scelta di rendere discorsivo anche l'apparato di note bibliografiche, ricorda le Finzioni Occidentali, cui è dedicato parzialmente l’ultimo capitolo). Il titolo però è ingannevole perché molto si parla degli anni Sessanta e poco del decennio successivo. Si tratta di una serie di colloqui a volte reali, desunti da carteggi editi e inediti, a volte invece ipotetiche tra Calvino e Manganelli per il fantastico, tra Sciascia e Primo Levi per l'ordine delle somiglianze assimilato all'interesse per la radice antropologica del narrare comune anche a Pasolini e Calvino; abbiamo poi il dialogo a distanza tra Pasolini, Calvino e Parise di fronte a problemi come il ’68, la povertà, l’aborto, il divorzio, l’omosessualità (ostacolo per un aperto dialogo con Sciascia, che dichiarando «di essere comunque dalla parte di Gide e non di Claudel» dopo la morte del primo, si pente di quest'incomprensione). Parise con Pasolini vive un rapporto particolarmente tormentato principalmente dovuto (lascia intuire Belpoliti) alle diversità di temperamento. Calvino a Parise che «la miglior cosa da fare è ignorarlo», Viene poi evocata la contrapposizione Pasolini-Pavese avanzata da Fortini (nella Verifica dei poteri sarebbe però da ricordare anche il suo dialogo-contrasto a distanza su Spitzer con il Cases de Il testimone secondario, con la risposta di Spitzer a quest'ultimo). Negli anni Sessanta l'attesa del classico non viene rimossa o sopita ma semplicemente transitata dalla letteratura al mito, dal mito all’antropologia, dall’archetipo alla tachigrafy, al “documento” di Foucault. Così mentre Manganelli e Calvino che si interrogano sul valore del classico (e ancora il confronto obbligato è con Eliot) dall’altra parte ci sono i documenti dei pazzi, la storia della clinica, la dietetica e l'erotica, il comico di Folengo Rabelais etc…E poi l'Aretusi di Camporesi, che affianca il Pinocchio di Manganelli… C'è in vista il mare magnum della teoria letteraria, che transita, anfibia, tra le case editrici e l'università, con il suo carico di fascino coinvolgente: Calvino tra Bactin, Frye, Leiris, Queneau, Perec; Celati tra Frye e Deleuze (non quello di Différence et répétition ma quello della Logique du sens), la divaricazione tra mito e il sogno l'interesse di entrambi per il Romance. Ecco dunque gli anni Settanta, stretti tra storicismo e marxismo e il mito (di Pavese, Leone e Natalia Ginzburg e che transitano nella Einaudi e poi nella Adelphi e in Bollati Boringhieri), anni che scoprono la comprensione affettiva, il carnevale Bolognese, l'espressività la corporeità, la fantasia. Per Belpoliti i maestri sono Calvino e Manganelli (e in posizione defilata ma non meno importante Comisso e Parise) ma si parla anche di Camporesi, del gorilla Quadrumano di Giuliano Scabia, del Camion di Carlo Quartucci con i testi di Alberto Gozzi. È la Bologna di Penthotal, di Pazienza, della Traumfabrick dell’arrivo del fumetto. E qui si chiude il saggio di Belpoliti ammettendo nell’ultima pagina delle note che «la storia letteraria di quegli anni deve essere ancora scritta e dovrebbe probabilmente includere un capitolo in cui insieme a Tondelli, Palandri, Piersanti, si parli di Andrea Pazienza come narratore»: non un’apologia o una denigrazione «ma un la “storia di un modo di raccontare” che attinge da Celati, Scabia, Camporesi, Roberto Leydi, Gianni Scalia, e poi del rapporto tra utopie politiche e sentimenti, e di altro ancora». Peccato che siamo a pagina 302 e il libro è finito. L’analisi di una ricreazione intesa come un “ritorno partecipativo alle convenzioni” è ancora là da venire (anche se la liberazione della convenzione dallo spettro della retorica deve indubbiamente qualcosa all'estetica della ricezione e alla fusione degli orizzonti di cui invece in sede teorica s’è abbondantemente discusso dagli anni Settanta in qua). Quello che manca invece è l’incastro tra i due piani (teorico e storico). Come negli anni Settanta alla fantasia "ordinatrice", leggera e geometrica di Calvino (la retta, il cristallo) subentri la petite musique da “vita matta” lo raccontano ancora molto meglio i testimoni come Palandri e lo Scòzzari di Prima pagare poi ricordare, che i saggisti.

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