2 nov 2007

Provincia morta. Un poeta di Albisola

Per quanto mi è dato sapere transita impercettibile nel silenzio quasi assoluto il quarantennale dalla morte di un poeta dimenticato. Angelo Barile, nato ad Albisola Marina nel 1888 e ivi morto nel 1967. Vicino in gioventù alla prima Democrazia Cristiana di Murri, dedicò attenzione ai problemi religiosi (negli anni universitari, importante l’amicizia con il barnabita G. Semeria, portavoce del modernismo). Dopo la laurea in giurisprudenza a Genova frequenta corsi di lettere all’Università di Torino. Partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria e tornato dal fronte non si allontanò più da Albisola, attendendo per molti anni alla sua azienda di terraglie. Durante il fascismo era vissuto appartato, ma avverso al regime: venne arrestato dai tedeschi nel ’43 e solo per un caso scampa alla fucilazione. Poeta dalla gioventù decise di pubblicare molto tardi su varie riviste tra cui «Solaria », «Circoli», «Maestrale», «Il Frontespizio». All’impegno politico Barile tornò solo nel secondo dopoguerra, svolgendo un’intensa attività pubblica come amministratore comunale e provinciale. Due anni prima della morte nel 1965 Vanni Scheiwiller decise di pubblicare il libro che conteneva le sue Poesie (1930-1963) (1965) che raccoglie le ormai introvabili raccolte precedenti Primasera (1933) e Quasi sereno (1957) e cui si aggiunge la sezione A sole breve che raccoglie le liriche degli ultimi anni.
Quest’autore mi piace non solo perché conosco e frequento i luoghi in cui e di cui scrisse, ma per il suo aver saputo essere infinitamente meno vistoso del suo concittadino Tullio Mazzotti (1899-1971) e per non avere avuto, in fondo, nemmeno la vanità di creare un livre. Barile negli anni Trenta come gran parte dei poeti della sua generazione ha letto Blake e ha avvertito

«la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore... non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell'intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Poche - se pure - anche a quelli che sono i più bravi. Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze. Facevo mie le parole, non più dimenticate, di Boine: “Bisogna lasciar correre l’acqua, sporcar meno carte, aspettare. Lascia, lascia sbollire, butta via! che le cose importanti son poche e le cose belle rade... non si è padroni che delle cose inutili e le essenziali si fanno da sé, ci violentano».

Quest’idea dell’opera essenziale che si fa da sé, o quasi a scapito dell’autore, “violentandolo”, viene direttamente dalla prefazione a Quasi sereno e mi pare molto importante. Coerente con queste intenzioni Barile costruisce i propri strumenti sintattici e verbali con lo scrupolo quasi didattico che Pasolini indicò in un “ostinata tensione” esercitata sulla lingua per realizzare «il miracolo della fusione... tra sensibilità soggettiva e presenza oggettiva del divino». Tuttavia etichettò Barile come esempio di un «cattolicesimo disperato ed estetizzante» emarginandolo in una zona periferica, tra il pascoliano-crepuscolare e l’ermetico, cui lo avrebbero condannato virtuosismo e indifferenza ai contenuti della storia, messa tra parentesi dalla sua esclusiva tensione alla «purezza». In realtà forse Pasolini non comprese che Barile demandava l’«enorme antefatto della storia» all’«idea di eterno » (come scrive Carlo Bo): un’idea, o piuttosto, un sentimento che egli verificava nello sbriciolarsi del quotidiano entro un’unica cornice privilegiata: la «piccola patria» ligure di Albisola Marina dalla quale non si staccò per l’intera esistenza; e anche per questo volontario isolamento egli poté apparire defilato dalla temperie culturale del ’9oo. In realtà Barile fu del proprio tempo testimone e protagonista (si pensi anche solo a «Circoli», la rivista da lui fondata assieme a Adriano Grande e sovvenzionata da Guglielmo Bianchi; vedi anche F. Contorbia, Lucia Rodocanachi. Le carte la vita, Società Editrice Fiorentina, 2006), ma lo fu nella misura discreta e congeniale alla finezza di sentimenti che lo portò a diventare punto di riferimento e di magistero per molti poeti. «Giudice segreto», lo ha definito sempre Bo in occasione della sua morte e, in effetti, tutto ciò che si faceva a Roma o a Firenze fra le due guerre aveva un’eco immediata nel «piccolo laboratorio» della sua casa. Inutile forse ricordare l’amicizia con il coetaneo Sbarbaro, nata sui banchi del liceo e durata una vita, e il fatto che Montale lo eleggesse a primo giudice dei “rottami” che avrebbero poi costituito il primitivo nucleo degli Ossi di seppia; meno noto forse il legame con Adriano Sansa (Pola 1940) cui scrisse la prefazione a Vigilia (Sabatelli Editore); sindaco di Genova dal 1993 al 1997 condirettore della rivista «Resine» - e autore di Affetti e indignazione (Scheiwiller) e Il dono dell’inquietudine (Il nuovo Melangolo).

Primasera

Accompagnarmi sottobraccio al primo
che passa!
Foresto: a me lo simulo fratello.

Mi sporgo a ogni speranza più leggera
d’incontri, mi sorprendo mentre piego
a spalle immaginate
il capo.
Ora sento da questo
che ogni giorno mi cresce desiderio
di udire voci di stringere mani
di fare insieme a chi trovo, chiunque trovo, la strada,
sento il mio cielo che scolora e presto
si annera.
Un’urgenza affettuosa mi preme.
Da stanche luci di greppi pe’l fitto
del bosco a gradi precipiti calo
trafitto da richiami
a piana terra.
La ripa erbosa mi sfugge, m’afferro
alla pungente carità dei rami.

1 commento:

antonio ha detto...

Si dice che i poeti non muoiono mai.
Metto sul mio blog una breve poesia di Barile In chiesa del 1938 e trovata nella raccolta le più belle liriche italiane del 1938.
Mi piace il suo articolo