
Quest’autore mi piace non solo perché conosco e frequento i luoghi in cui e di cui scrisse, ma per il suo aver saputo essere infinitamente meno vistoso del suo concittadino Tullio Mazzotti (1899-1971) e per non avere avuto, in fondo, nemmeno la vanità di creare un livre. Barile negli anni Trenta come gran parte dei poeti della sua generazione ha letto Blake e ha avvertito
«la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore... non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell'intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Poche - se pure - anche a quelli che sono i più bravi. Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze. Facevo mie le parole, non più dimenticate, di Boine: “Bisogna lasciar correre l’acqua, sporcar meno carte, aspettare. Lascia, lascia sbollire, butta via! che le cose importanti son poche e le cose belle rade... non si è padroni che delle cose inutili e le essenziali si fanno da sé, ci violentano».
Quest’idea dell’opera essenziale che si fa da sé, o quasi a scapito dell’autore, “violentandolo”, viene direttamente dalla prefazione a Quasi sereno e mi pare molto importante. Coerente con queste intenzioni Barile costruisce i propri strumenti sintattici e verbali con lo scrupolo quasi didattico che Pasolini indicò in un “ostinata tensione” esercitata sulla lingua per realizzare «il miracolo della fusione... tra sensibilità soggettiva e presenza oggettiva del divino». Tuttavia etichettò Barile come esempio di un «cattolicesimo disperato ed estetizzante» emarginandolo in una zona periferica, tra il pascoliano-crepuscolare e l’ermetico, cui lo avrebbero condannato virtuosismo e indifferenza ai contenuti della storia, messa tra parentesi dalla sua esclusiva tensione alla «purezza». In realtà forse Pasolini non comprese che Barile demandava l’«enorme antefatto della storia» all’«idea di eterno » (come scrive Carlo Bo): un’idea, o piuttosto, un sentimento che egli verificava nello sbriciolarsi del quotidiano entro un’unica cornice privilegiata: la «piccola patria» ligure di Albisola Marina dalla quale non si staccò per l’intera esistenza; e anche per questo volontario isolamento egli poté apparire defilato dalla temperie culturale del ’9oo. In realtà Barile fu del proprio tempo testimone e protagonista (si pensi anche solo a «Circoli», la rivista da lui fondata assieme a Adriano Grande e sovvenzionata da Guglielmo Bianchi; vedi anche F. Contorbia, Lucia Rodocanachi. Le carte la vita, Società Editrice Fiorentina, 2006), ma lo fu nella misura discreta e congeniale alla finezza di sentimenti che lo portò a diventare punto di riferimento e di magistero per molti poeti. «Giudice segreto», lo ha definito sempre Bo in occasione della sua morte e, in effetti, tutto ciò che si faceva a Roma o a Firenze fra le due guerre aveva un’eco immediata nel «piccolo laboratorio» della sua casa. Inutile forse ricordare l’amicizia con il coetaneo Sbarbaro, nata sui banchi del liceo e durata una vita, e il fatto che Montale lo eleggesse a primo giudice dei “rottami” che avrebbero poi costituito il primitivo nucleo degli Ossi di seppia; meno noto forse il legame con Adriano Sansa (Pola 1940) cui scrisse la prefazione a Vigilia (Sabatelli Editore); sindaco di Genova dal 1993 al 1997 condirettore della rivista «Resine» - e autore di Affetti e indignazione (Scheiwiller) e Il dono dell’inquietudine (Il nuovo Melangolo).
Primasera
Accompagnarmi sottobraccio al primo
che passa!
Foresto: a me lo simulo fratello.
Mi sporgo a ogni speranza più leggera
d’incontri, mi sorprendo mentre piego
a spalle immaginate
il capo.
Ora sento da questo
che ogni giorno mi cresce desiderio
di udire voci di stringere mani
di fare insieme a chi trovo, chiunque trovo, la strada,
sento il mio cielo che scolora e presto
si annera.
Un’urgenza affettuosa mi preme.
Da stanche luci di greppi pe’l fitto
del bosco a gradi precipiti calo
trafitto da richiami
a piana terra.
La ripa erbosa mi sfugge, m’afferro
alla pungente carità dei rami.
1 commento:
Si dice che i poeti non muoiono mai.
Metto sul mio blog una breve poesia di Barile In chiesa del 1938 e trovata nella raccolta le più belle liriche italiane del 1938.
Mi piace il suo articolo
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