29 ott 2007

tema in classe

Al termine di una lunga requisitoria, i Pm di genova Anna Canepa e Andrea Canciani hanno richiesto una pena complessiva di 225 anni di carcere per i 25 manifestanti, imputati per devastazione e saccheggio nel processo sui fatti avvenuti durante il G8 del 2001 a Genova. La pena più pesante, 16 anni, è stata chiesta per la 41enne lecchese Marina Cugnaschi, imputata anche per altri due reati e considerata dagli inquirenti membro dei "black block"; richieste di condanne ultradecennali anche per Alberto Funaro e Francesco Puglisi (15 anni a testa), Vincenzo Vecchi (14 anni e 2.500 euro dei multa), Luca Finotti e Carlo Cuccomarino (12 anni). Per gli altri sono state proposte pene comprese tra 10 e 6 anni. «Chiedo a voi tutti - ha detto Canciani in aula - una volta accertata la responsabilità delle persone, di avere il coraggio di chiamare le cose che abbiamo visto con il loro nome, devastazione e saccheggio, come avremo il coraggio di chiamare massacro quello che è avvenuto alla scuola Diaz». Le cose, in effetti bisogna avere il coraggio di chiamarle col loro nome. Accettiamo l’invito e traiamo qualche conclusione. Devastazione e massacro. Della prima sono responsabili i civili, della seconda le forze dell’ordine. Sta bene. Vediamo allora di ragionare di conseguenza. Anni di carcere per chi ha spaccato macchine e vetrine, ancora più carcere per chi ha spaccato teste a persone. Sono più importanti gli uomini o le cose? La risposta è ovvia ma credo che la violenza di Bolzaneto non sarà stanata alla radice. Per i 45 imputati per i fatti della caserma aleggia la prescrizione. Ugualmente si prospetta indulto e prescrizione per i 29 agenti di polizia riconosciuti tra i responsabili della scellerata irruzione alla Diaz. Da una parte i “colpevoli” in carne ed ossa, capri espiatori, i “violenti contro le cose”, dall’altra “i servi dello stato”, i garanti dell’ordine, tutelati dal sistema che garantiscono, cui dobbiamo essere grati per un magnifico pregiudizio e per un maldigerito senso di colpa. “I servi io li tratto bene”. “I servi bisogna rispettarli, fanno il lavoro sporco che noi signori non vogliamo fare”. “Conservano le cose che possono o potrebbero essere mie”. “Possiamo punirli sì, colpevolizzarli mai”. Spaventosa ipocrisia del linguaggio. Servi. Gesù sarebbe stato coi servi. Pasolini pure. Allora tutti se la presero. Lui disse che era una poesia ironica. Forse lo era davvero. Sicuramente ironica l’idea di pensare che da una parte “giustizia è fatta” perché ci sono i colpevoli in carne ed ossa, e dall’altra “giustizia è fatta” per un risarcimento. Senza colpevoli. Infatti lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia. Come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete Lilliput, era seduta, con le mani in alto e fu massacrata di botte senza ragione. Per il giudice Angela Latella la selvaggia repressione genovese è coperta da una vergognosa cortina di menzogne e depistaggi da parte della Polizia di Stato, e, ben più grave, la sentenza genovese certifica che quella violenza non fu un’iniziativa isolata, ma avvenne in un preciso contesto. Un’altra brutta pagina di una democrazia imperfetta che ancora tende a lisciarsi il pelo parlando di “buona giustizia” (Lucia Annunziata). Forse in senso tecnico è così. Ma il discorso è diverso. Si tratta di responsabilità individuali, e la storia non possono farla le sentenze. E invece in Italia la giustizia è l’anticamera della storia; l’una si è sporta naturalmente verso l’altra in un abbraccio inquietante, in una farsa grottesca, l’una dilatando a dismisura i tempi, l’altra restringendoli. Una roulette russa tra “sommersi” e “graziati”. E che grazia. Cinquemila euro di rimborso alla pediatra e nessun colpevole a fronte a 225 anni di carcere. A luglio a Rostock ci furono quasi mille feriti e 130 arresti. Entro i primi giorni dall’arresto ci furono i processi: un 31enne fu condannato a dieci mesi di reclusione senza la condizionale per aver lanciato sassi, bottiglie e altri oggetti a ripetizione contro a polizia nei disordini. Pur nella sua brutalità, questa giustizia ha un senso. Magari è ingiusta subito, ma evita di proiettare la sua distorsione. E invece, così, abbiamo il tardivo rimborso e l’altrettanto tardiva pena esemplare, forse ancor più temibile perché parafrasando Leopardi “il male atteso è sempre maggiore del male presente”. Il messaggio è chiaro. Anzi sono due. Prima di tutto la magra giustizia non può che arrivare come grazia personale; come riconoscimento di un percorso di purificazione dovuto all’abnegazione del questuante e non a un riconoscimento dell’istituzione “in fallo”. “Devi meritarti il rispetto, tornare a parlarci”. “Gioca secondo le regole e saremo comprensivi”, “Te l’eri cercata ma ti è andata bene”. Di là invece i colpevoli veri, in carne ed ossa. Quelli che hanno attentato alla “Roba”. L’unica cosa più vera dei corpo.
La “pena esemplare” per l’arroganza, la sete di violenza, il fascismo esibito, l’uso arbitrario della forza, per la volontà di colpire innocenti; insomma, il risolutivo faccia a faccia con i reparti creati ad hoc come i Canterini Boys o i Ccir, i famigerati contingenti di carabinieri per gli interventi risolutivi, sono ancora là da venire. Già così il processo potrebbe costare allo Stato tra i 7 e gli 8 milioni di euro.

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