9 ott 2007

Antonio Moresco saggista (parte I)

Leggo Moresco dai tempi di Lettere a nessuno. È lo scrittore italiano vivente che più ammiro. Abbiamo parlato in quattro o cinque occasioni e la mia simpatia si è ulteriormente incrementata conoscendo la persona. Date queste premesse è difficile imbastire un discorso ma mi piacerebbe riuscirci. Nelle puntate di questo irregolare feuilleton critico ci proverò.
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"E’ saltato questo, è saltato quello, abbiamo rotto i ponti con questo, abbiamo rotto i ponti con quello… Sono le letture teoriche di questi anni, le semplificazioni di questi anni, ad opera di un personale intellettuale che si è andato a chiudere da sé in questo vicolo cieco […] Una sorta di ceto intellettuale in perdita di statura e di status che legge tutta la realtà attraverso i propri piccoli schemi teorici e sociologici separati, che crede di essere in un posto e invece si trova in un altro infinitamente più drammatico e grande. Il tutto stando bene al caldo nel suo piccolo posticino, senza neppure le sia pur risibili furie modernistiche astratte delle Avanguardie Storiche, prese in contropiede dai tempi a venire. C’è in giro una lettura annichilente della vita e della “letteratura”, da parte di figure che si sono già date per vinte. Sono anni, sono decenni che lo stesso sguardo si ripresenta sotto aspetti diversi ma con lo stesso piccolo obiettivo di fondo. Adesso non si può più questo, non si può più quello… No, si può ancora, si può sempre. Siete voi che non potete. Non bisogna avere paura della grandezza perché la grandezza è sempre possibile. Tutte queste piccole teorie da macchine celibi, da spaventati, da figure specializzate che hanno paura di sapersi e di sentirsi dentro la stessa terribile grandezza e lo stesso rischio che vedono nel passato, in un passato pietrificato e disinnescato che leggono attraverso le loro lenti culturali consolatorie. Bisogna davvero essere molto insicuri della propria grandezza e dei propri sogni per avere una simile paura della grandezza!"
Per avere un’idea di come agisce Antonio Moresco scrivendo si può citare questo passo come innumerevoli altri dalla Visone (1998) allo Sbrego (2004). La scrittura di Moresco ripete, affabula si dispiega in cellule omogenee, ripetibili in sequenze variate, per partenogenesi. Moresco è il monolinguismo del nuovo secolo, la digestione del tempo traslata in uno stile immutabile che ha una propria inconfondibile impronta che si innesta direttamente nella lingua italiana, “letteraria” e non (chi mai d’ora in avanti potrà un periodo con l’aggettivo “fiorita” preceduto da virgola?) Moresco vive una tensione una sfida costante. Fin troppo facile attaccarlo. Il suo essere ferocemente disarmato mette di fronte ad un’immediata empatia o ad un aperto rifiuto, ad una simpatia senza limiti, o a un fervore da barricata. E le barricate, inevitabilmente sono sorte. Carla Benedetti, Tiziano Scarpa, Giuseppe Genna, Massimilano Parente sono lì a testimoniarlo; attorno a Moresco è concresciuta negli ultimi dodici anni una legittimazione spontanea, fondamentale, una cordata. Impossibile però prendere il pacchetto schierato sul “fronte occidentale” o nella Nazione Indiana in toto: e poi cosa c’entra il pur ottimo e trascuratissimo Drago, o il meno dotato Bajani con questo discorso? Posso amare Moresco e ritenere Parente un perfetto imbecille? E come non vedere in questa dinamica la ragione della diserzione critica dalla sua opera, il bisogno di prendere le distanze da un qualcosa che si compatta e fa gruppo? Viene da dire "il suo codazzo di accoliti ce l'ha e si lamenta ancora, quel mafioso, arriva lui e tutti un passo indietro a riverire... ma da dove cazzo arriva questo piantagrane" Moresco cammina per la sua strada, con furore e grazia (grazia che dimostra ad esempio rispondendo allo scomposto intervento di Cortellessa su Evangelisti) e ci riporta come una scheggia sottopelle agli anni Settata e poi alla dispersione degli anni Ottanta. Moresco è l’autore che ha transitato valori letterari e codici del secolo scorso verso il secolo nuovo delineando una traiettoria intellettuale che emerge chiaramente negli scritti a carattere saggistico, anche se parlare di saggistica ad Antonio Moresco forse non piacerebbe. La saggistica è settoriale, professionale “disinnescata”, inaccettabile. Moresco non intende accettare le regole del gioco fin nel loro fondamento più remoto. Neanche la lettura è lettura nel senso tradizionale del termine, ma visione. Bisogna sfondare le paratie stagne dei settorialismi e dei generi. Tanti lo dicono, pochi a parte lui sono capaci di farlo davvero. Per saggistica intendo però quei luoghi in cui Moresco parla dei libri o dell’arte, intendo quelle pagine in cui parla di una cosa scritta o dipinta che esiste e poi magari si sfonda in un'altra, come nello Sbrego, o secondo il titolo originale, nell’Adorazione.
Per arrivare a rifondare la condizione epistemologica il saggio (scusate i paroloni) bisogna però non solo rifondare l’atto di lettura, azione aleatoria e non comprovabile, ma aggirare il canone, espanderlo evolvendo, cercando di evolvere la società e la civiltà italiana. Questo è il Moresco saggista che affronta il peso del mondo; quello che riconsegna al campo letterario italiano il mandato imperativo della grandezza, quello che piglia i soldi di Silvio per consegnare lo Zibaldone al bacino linguistico dominante al momento, quello che ci fa scoprire che Dante in Giappone era una donna, quello che combatte per i Rom e intanto ci porta a ripercorre strade impensabili, da Bilenchi a Walser, da Louis-Auguste Blanqui al Il principe Genji. Moresco odia il termine “letteratura”, penso che odi anche il termine “intellettuale” e forse anche “storia” e chissà quanti altri patetici tentativi linguistici di limitare qualcosa che non deve stare chiuso in scatole predigerite e precostiutuite. Eppure se un critico si mettesse a scrivere seguendo la sua lingua e i suoi strumenti non farebbe un buon servizio, né all’autore, né ai lettori né alla critica letteraria nel cui scaffale in fin dei conti finirà il libro. Per questo dovendo scrivere qualcosa su Moresco non mi metterò a lavorare con dei “trasferelli stilistici” ma cercherò di indagare “la posizione storica dell’intellettuale e saggista Moresco nel Campo della letteratura italiana”. Quasi tutte le parole potrebbero essere cassate come castranti ma le uso apposta. Ho sempre trovato poco giustificato e un po’ snob il desiderio di Montale di “non essere conficcato nella storia” soprattutto dopo che hai lavorato tanto, davanti e di dietro, per essere il poeta-giornalista del «Corriere»; per questo pur ritenendo fondamentale “l’uscita dallo stato di minorità” di cui parla Antonio, il servizio che mi sentirei di rendere (anche a chi quella novità non volesse o non potesse intendere) sarebbe spiegare il nuovo con il linguaggio vecchio. Pigrizia intellettuale? Omogeneizzati? Algidi companion da future adozioni da curriculum e nient’altro? Forse. Se qualcosa ho imparato, mi esporrò anch’io a qualche rischio. Perché ci sono ancora le cattive digestioni, le piccole mediocrità, la pigrizia. Partirei con un confronto: ad esempio tra la forma saggistica di Amore Lontano di Sebastiano Vassalli e Lo Sbrego… (continua)

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