14 ott 2007

Letteratura Postcoloniale e della migrazione. Il caso Bahatt.

Ron Kubati è nato a Tirana nel 1971, da anni vive in Italia e ha pubblicato diversi libri. Carla Benedetti recensendo il suo ultimo romanzo scrive «sulla "letteratura migrante", che ormai è una realtà cospicua del nostro paese, sull'arricchimento che porta, sul suo valore non solo documentario ma anche letterario, è già stato detto molto. E anche sul rischio che la categoria, ormai diventata anche un genere editoriale, possa ingabbiare le diverse voci dentro a uno stereotipo. Ma questa è oggi la sfida di tutti quelli che scrivono. Viviamo in una società normalizzatrice in cui ogni singolarità è mal tollerata, criminalizzata, oppure ritenuta poco spendibile nella comunicazione e nel mercato».
Tutto molto vero, o quasi. Nei paesi di lingua inglese sono venticinque anni che razza e genere si mettono sullo stesso piano vendendosi infatti un sacco di opere di non inglesi che scrivono in inglese e di non eterosessuali che scrivono della loro non eterosessualità. Ma la fornace vera, l’industria, è quella della critica che va a braccetto stavolta sia con gli scrittori, sia con il mercato editoriale. Da un po’ mi trovo a meditare su questioni e una splendida risposta ad alcune mie idee la trovo in Cancellazione di Parcivall Everett, romanzo che consiglio. Il fenomeno che questo romanzo tematizza con ironica grazia, avevo cercato di esprimerlo recensendo Il colore della solitudine, di Sujata Bhatt, poetessa indiana di espressione inglese (trad. Paola Splendore, Roma, Donzelli, 2005). Il pezzo, chiestomi dall’“Indice” non si confaceva forse alle esigenze della rivista e giustamente non fu allora pubblicato. Lo ripropongo ora in questa sede ritenendo che tale discorso vada stimolato, e non sopito.

Il poeta romantico in lingua gujarati Narmad (1833-1886) seppe rapidamente appropriarsi di alcuni tratti fondamentali dell’occidente (fondò, tra l’altro, «Dandiyo», un foglio sul modello dello «Spectator») e scrisse una celebre canzone ricordata dal Mahatma Gandhi nelle sue memorie che diceva: «Guardate come i forti inglesi dominano i piccoli indiani Siccome mangiano carne, sono alti cinque cubiti». Oggi fortunatamente, e ormai da una trentina d’anni l’ipernutrita cultura anglofona dall’alto dei suoi cinque cubiti ha cominciato a guardare con interesse alla cultura delle ex colonie ed in particolare agli scrittori di lingua inglese, come Sujata Bhatt, una poetessa quasi cinquantenne nata ad Ahmedabad da una famiglia bramina e cresciuta tra New Orleans, la città di Pune, in India e il Connecticut dove il padre è chiamato a dirigere un programma di ricerca all’università di Yale.
Formatasi nel cuore pulsante della teoria americana su un canone esemplarmente “occidentale” (Hardy, Yates, Eliot, Stevens, Bishop, Williams etc.) Sujata Bhatt ha tradotto la poesia Gujarati per la Penguin Anthology of Contemporary Indian Women Poets e in inglese («lingua d’elezione della scrittura poetica» e «unica vera patria») ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Brunizem, Manchester, The Carcanet Press, 1988, premiata con il prestigioso "Commonwealth Poetry Prize") cui hanno fatto seguito Monkey Shadows (1991) The Stinking Rose (1995) Augatora (2000) e The color of Solitude (tutte pubblicate dall’editore Carcanet e tutte ampiamente antologizzate nella scelta compiuta dalla curatrice italiana coadiuvata dall’autrice stessa). Determinanti per la sua formazione sono il contatto con un poeta di rilievo come Eleanor Wilner (1937) (presente nella prestigiosa Norton Anthology of Poetry) e la frequentazione di un Writers’ Workshop organizzato dall’università dell’Yowa dove incontrerà anche il suo futuro marito, un giornalista e scrittore di Brema. “La lingua come condizione d’esilio” e “la viva restituzione della corporeità e dell’eros in un’ottica femminile” connotata da esperienze usualmente private di rappresentazione (Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei seni / di una donna incinta / al quarto mese?”) sono indubbiamente una delle cifre dominanti della poesia della Bhatt che tuttavia ha il suo valore in quanto poesia pubblicata nell’idioma più parlato al mondo e impostata su presupposti culturali tutt’altro che “marginali”, almeno nel mondo anglofono.
Lo dimostra il fatto che il problema del multiculturalismo cominci a farsi udire anche in Italia, e per di più in un “genere” o meglio “in uno spazio di mercato”, relativamente angusto come quello della poesia. Ma la poesia multiculturale cantata in The Multicultural poem «La poesia multiculturale è una creatura, un essere il cui spirito respira come un’orchidea al sole ancora umida di pioggia» assomiglia tanto a quella “ruota lucidata da due scrosci di pioggia” da cui "così tanto dipendeva", ed è avvicinabile in primis allo stile di quel poeta radicalmente monoculturale, in perenne lotta con il chiassoso (e paradossalmente reazionario) cosmopolitismo poundiano, che fu William Carlos Williams. L’equivoco dei “margini” porta ad una sovrapposizione dell’immaginario estetico e sociale non sente da rischi. Già è difficile decidere se e come esportare un modello politico, peggio coltivare in vitro un’idea di un valore letterario “anatomico” e “di genere”, perché l’abbaglio “dei cinque cubiti”, come il faquir della tradizione araba, è sempre lì pronto a sbucare ad ogni svolta d’angolo.

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