
10 dic 2007
sicilia verde irlanda: il festival, il cortile dei marchesi, sannelli

7 dic 2007
lo scrittore e la traiettoria unica

Ma la storia è quella delle cinque giornate di Milano, gli ultimi trenta anni del secolo scorso, su cui c’è più presa? «“La situazione oggi è tale che non si può non ascoltare-guardare la storia”. Siamo in crisi d’identità. Perciò abbiamo, vattimianamente, una “scrittura debole”». Allora ci si domanda, perché esistono opere e scrittori importanti, destinati a discussione, e a memoria? A proposito Ferdinando Camon è molto chiaro: «Non è solo questione di riuscita estetica delle loro opere, ma anche di stabilità della storia dentro la quale vivono e scrivono: questo appare più chiaro se andiamo a ripescare autori che non ci sono più, Moravia (1907-1990) [ma anche Piovene (1907-1974) e Bilenchi (1909-1909) Pavese (1908-1950)] Pratolini (1913-1991), Tobino (1910-1991), Bassani (1916-2000), Volponi (1924-1994), Parise (1929-1986): vivevano e descrivevano un’esperienza coerente, le loro opere formano un blocco. Tra gli ultimi grandi autori dotati di questa coerenza e questa grandezza unitaria, ci sono Primo Levi, Rigoni Stern, Fenoglio. Il loro essere-per-sempre ha un prezzo: non erano visti quando si faceva il punto su un momento della letteratura, un quinquennio o un decennio. Non ricordo un solo convegno letterario a cui sia stato invitato Levi o Rigoni o Tobino o Fo. La Storia della letteratura italiana più diffusa nelle nostre scuole, per tutta la seconda metà del secolo scorso, quella di Natalino Sapegno, per ben 43 edizioni non dedicava una riga a Primo Levi. Non lo vedeva proprio. Non sapeva che esistesse. Sapegno rimediò alla lacuna inserendo Levi con la formula: «È forse il più grande scrittore italiano del secolo». Ma se era il più grande, come faceva a ignorarlo per mezzo secolo?Lo scrittore e l’opera destinata a durate si pone di traverso rispetto alla storia, si confronta con la storia in una dialettica più ampia, scopre valori e li confronta. Lo scrittore di romanzi secondo Camon vive una “crisi di identità” e deve invece avere ben chiaro almeno un elemento: «Sappiamo soltanto una cosa: che dobbiamo capire chi sono [gli scrittori] e fargli capire chi siamo». Il gioco a nascondere del postmoderno è finito ma ci ritroviamo nel dominio del curriculum, nella posizione e condizione post-coloniale che ho tentato di azzardare parlando di Saviano o della Bahatt: “la novità può venire da tutte le parti dell’orizzonte, Islam, Stati Uniti, Cina, Terzo Mondo, Quarto, Est europeo, Patagonia, Africa… Più una biografia è sbalestrata, più è autorevole. Il Nobel di quest’anno vive a Londra, ma ha lavorato nello Zimbabwe ed è nato in Persia, attuale Iran: se gli togliete la Persia, gli togliete il Nobel”. Doris Lessing effettivamente ha questo problema. Ricordate cosa si diceva a proposito dell’abbaglio dei cinque cubiti? Solo che adesso, dopo aver avuto bisogno di premiare gli autori dell’alterità, promuoviamo chi con tale alterità aveva convissuto da tempi “non sospetti”. Ancora una volta il premio come istituzione spiega gli artifici e l’esistenza del canone, il suo senso profondo, il suo essere un termometro, giusto o sbagliato, del clima culturale di un periodo, un’istantanea del clima. Chissà come sono rimasti, nella foto, Mariolina e la sua Squadra? E il termometro, dove ce lo nascondiamo?
30 nov 2007
Il belgio, Borghezio e la pietra filosofale.
Non so perché negli spogliatoi della piscina, con l’avvocato si finì a parlare di Borghezio e della faccenda dei treni disinfettati dagli extracomunitari. Il giorno dopo ritrovo il grand’uomo della lega sul volo per Bruxelles e lo scrivo all’avvocato. “Peccato non avere il disinfettante”. E lui: “fai le puzze”. Dopo due giorni di convegno ad Anversa e mezza giornata a Lovanio, in aeroporto al check in, ancora Borghezio. Questa volta ho finito i soldi sul cellulare, allora con due colleghe del convegno anche loro ritorno sullo stesso volo, vado al Pizza Hut, in allegria. Una birra, sigaretta fuori e poi all’improvviso barcollo, rientro nell’aeroporto, guadagno una sedia, dolori lancinanti al fianco sinistro, impallidisco, sudo, le mani formicolano, vista scura, ballo l'occhio. Le colleghe chiamano un medico e mi portano ombrello e i bagagli al Meda Luchthavendokters del Bruxelles Airport, dove mi diagnosticano un attacco acuto di calcoli. Niente di epico ma quelli volevano tenermi e io avevo alcuna intenzione di essere ricoverato, tanto meno lì. Il Dr House sconsiglia: “il reviendra”. Ma è possibile firmare e fuggire mostrando il biglietto aereo per ricevere indicazioni su dove andare: “floor three, left, gate sixty-eight. Forty-five euros, please”. Pago, vado, sbaglio e imbocco per i voli extraeuropei superando senza sospetti una coda di africani e cinesi in coda con spiegazioni goffe e un milione di “sorry”. Torno indietro verso un’enorme “EU” circondata da stelline su fondo blu e imbocco la corsia giusta. Qui la cosa è più rapida ma devo ancora passare i metal detector e i raggi x per i bagagli a mano, più una serie interminabile di scale mobili. Quando credo di essere allo stremo un cartello minaccia “Gate 60-70 time expected 10-15 min.” e una sfilza di tapis roulant si srotola in uno spazio enorme, una distesa deserta, che scorre in automatico, come in un disegno di Buzzati. Io e la mia carta d’identità scaduta da un giorno vediamo sfilare i grandi numeri, sudando, verso il 68. All’imbarco, dietro una scrivania posticcia blu elettrico un ragazzo sorride complice come fossi uno che acciuffa per la rotta di collo il volo di ritorno che tiene su la tresca con l’amante e dice il mio nome, quasi fossi atteso per cena: “Mr. A.a. I guess…” “Of course”, ansimo, “di corsa”. A bordo ritrovo Giulia e Francesca, le colleghe che pietosamente mi avevano dato una mano e mi accomodo raccontando della faccenda. La mia situazione, palese tra le ultime file del volo che seguono la storia dell’avventura ospedaliera del ritardatario, desta anche l’attenzione del mio vicino, cordiale, ben piantato, segnato da un taglio fresco che dalla fronte si sposta per tratti irregolari lungo la dorsale del naso, a croste irregolari. È cordiale, del sud, molto scuro. Parliamo di gusto. Con il mio accento piemontese faccio qualche battuta sulla Lega, lui ride. Poi mi racconta che si è fatto male riparando il muso di un muletto. La sua ditta ha sede a Torino e affitta macchinari in tutta Europa. Quando si guastano a lui tocca partire ed andare a metterli a posto. Ha sentito che non ho voluto ricoverarmi e mi dice che anche lui ha rifiutato i punti. “Tanto va a posto”. Poi mi mostra anche la cicatrice di una scheggia di metallo in una mano che però aveva dovuto togliere perché era quasi arrivata al tendine. Uno dei tanti segni del lavoro che si fa. L’iniezione di Toradol, i 40 mg di piroxicam e il mio anonimo e cordiale interlocutore garantirono un buon volo. Entrambi in viaggio di lavoro, entrambi abbastanza soddisfatti nonostante l’infortunio, dormiamo. Nobilitato dal raffronto penso con autoindulgenza a quanto è forte il senso di colpa dei poveri intellettuali che hanno scelto di non fare la voce grossa, di rimanere uguali a tutti. Lui mi dice di non preoccuparmi per i calcoli: al cognato camionista dopo un paio di attacchi glieli hanno tolti e adesso sta benissimo. Problemi legati al lavoro, autotrasportatore o aspirante saggista è lo stesso. Così mentre m'assopisco ripenso al cammello azzurro che si affaccia sulla piazza della stazione di Anversa a presidio di uno zoo di inizio secolo, ad “Antwerpen” la poesia di Ford che Eliot generosamente considerava tra le migliori in assoluto sulla prima guerra mondiale («For there is no new thing under the sun, / Only this uncomely man with a smoking gun»); al convegno di Genova e a quello appena passato grazie a cui ero su quel volo, a Sigfried Sassoon imitato da Levi e a quella generazione parallela che cercando una cultura comune e si trovò a combattere su fronti opposti due volte nel giro di nemmeno quarant’anni. Mentre mi assopisco torna anche Montaigne e il suo viaggio in Italia in cerca di terme e il capitolo Dell’Esperienza che chiude il terzo e ultimo volume dei Saggi :
"Mais est-il rien doux, au prix de cette soudaine mutation; quand d'une douleur extreme, je viens par le vuidange de ma pierre, à recouvrer, comme d'un esclair, la belle lumiere de la santé: si libre, et si pleine: comme il advient en noz soudaines et plus aspres coliques? Y a il rien en cette douleur soufferte, qu'on puisse contrepoiser au plaisir d'un si prompt amendement? De combien la santé me semble plus belle apres la maladie, si voisine et si contigue, que je les puis recognoistre en presence l'une de l'autre, en leur plus hault appareil: où elles se mettent à l'envy, comme pour se faire teste et contrecarre!" (ed. it. Adelphi, p. 1464)
La filosofia dell’esperienza di un sedentario viaggiatore che cercò il confronto e la differenza a dispetto di tanti piagnistei. Dentro, un sorriso di gratitudine per quel misterioso piccolo mondo sospeso a novemila metri, Borghezio incluso: «Pour m’estre dés mon enfance, dressé à mirer ma vie dans celle d’autruy…» (p. 1439).
9 nov 2007
neo settantasette

Da Lucia Annunziata, 1977 - L'ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino, 2007
(...) Il movimento del '77 nasce con un'acuta consapevolezza dei media. O meglio, nasce all'interno dei media e con i media al suo interno.
La rivoluzione piú potente di quell'anno - e quella che per molti versi avrebbe avuto effetti piú lunghi - è proprio la scoperta e invenzione della mediaticità. La destrutturazione del linguaggio della comunicazione è anch'essa comunicazione.
La produzione intellettuale di quell'anno è monumentale, non solo per quantità ma per la continua sollecitazione che innesca. Delle radio e dell'uso dei quotidiani abbiamo detto. Va aggiunta la sperimentazione: la piú interessante e proficua è quella che nasce dalla rivista "Attraverso" fondata da un collettivo di cui facevano parte Franco Berardi (Bifo), Stefano Saviotti, Maurizio Torrealta e che si rifà ad Antonin Artaud e alla sua teoria del linguaggio corporale, alla separazione dell'arte nella vita del processo rivoluzionario, dell'intelligenza tecnico-scientifica. La rivista è un modello per molte altre che ne riprodurranno il linguaggio, e di cui la barra separativa è ancora oggi il simbolo. C'è poi "Zut", rivista dada-situazionista romana, curata da Angelo Pasquini, che usava parodia e paradosso come destrutturazione: il gruppo di "Zut" crea il Cdna (Centro diffusione notizie arbitrarie), incaricato di diffondere notizie inventate di sana pianta capaci talvolta di produrre eventi veri.
Nello stesso filone ci sono poi " Oask ? ! " degli indiani metropolitani, la napoletana "Wam" e la romana "Abat/Jour". I Circoli del Proletariato giovanile avevano invece "Viola", nata nel 1976, rivista dura della rabbia giovanile underground. Nel marzo 1977 le si affianca "WoW" di Dario Fiori, presentata come "il foglio dei circoli proletari giovanili in decomposizione", e si reclamò "WoW totoista" in critica al maoismo ancora imperante in molte altre esperienze, inclusa "A/tra-
verso". L'elenco è sterminato: ogni gruppo tendeva a fare comunicazione in proprio, per delimitare strettamente la propria area.
Lo stesso atteggiamento privatistico si ritrova nei consumi culturali: una ricerca di separatezza assoluta dai sentieri della cultura maggioritaria, anche di quella ribelle nata nel '68. Il movimento fa suoi alcuni "testi" classici della controcultura, come quelli della protesta pacifista e radicale americana, da Bob Dylan ai Fugs, i Jefferson Airplane, Country Joe, Frank Zappa, Joni Mitchell e il supergruppo Crosby, Stills, Nash e Young; ama i cantautori in rotta di avvicinamento all'impegno politico, come Francesco Guccini (fin dai primi testi scritti per i Nomadi) o Fabrizio De André e ancora Francesco De Gregori o per altri versi Edoardo Bennato. Ma canta soprattutto la canzone militante, di lotta, intrecciata strettamente alla canzone popolare - anche di sapore internazionalista, basti ricordare gli Inti Illimani.
Il repertorio basico è costituito dagli autori classici già colonna sonora degli anni sessanta: Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli. "E chi può affermare che un sampietrino non fa arte?", scriveva Ivan Della Mea. "Può servire De Gregori? Non ho dubbi: che cominci però anche lui a prendere le pietre, a guardare come sono fatte e a lanciarle. Irrobustisce il bicipite e l'accordo di chitarra si strappa piú duro". A metà degli anni settanta e quindi nel pieno del '77 questi autori saranno raggiunti da altri, come Claudio Lolli (Ho visto anche degli zingari felici) o il duo Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi. Nessuno piú di Manfredi e Gianco saprà dare voce allo spirito del '77 con canzoni-manifesto come Zombie di tutto il mondo o Dagli Appennini alle bande (una sorta di mistica del clandestinismo), Ultimo mohicano ("...sampietrino in mano", proseguiva la canzone), Non si paga (un inno alle autoriduzioni nei cinema e ai concerti), Avanguardo (satira del perfetto militante di Pdup e Ao).
Nelle canzoni di Manfredi c'è la sintesi perfetta del '77: amore, violenza, sogno, allucinazione e una satira autoironica feroce, come nella canzone Compagno si, compagno no, compagno un cazzo. Oppure in Ma chi ha detto che non c'è: "Sta nel fondo dei tuoi occhi, sulla punta delle labbra, sta nel mitra lucidato, nella fine dello Stato, nella gioia e nella rabbia, nel distruggere la gabbia, nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro, nella fabbrica deserta, nella casa senza porta..."
Al cinema si guarda ancora Fragole e sangue di Stuart Hagman, realizzato nel 1969, vero film culto sul '68 a Berkeley. Ma a Roma è il tempo della fioritura dei cineclub, il Filmstudio, il Politecnico e l'Officina. Cinema d'autore e carbonaro, insomma. Nell'agosto 1977 il vulcanico Renato Nicolini dà vita alla rassegna cinematografica dell'Estate romana, nella Basilica di Massenzio, e realizza con successo un'operazione di ricucitura culturale tra generi: tra il cinema alto dei classici di Hollywood e del cinema italiano e quello degli horror di serie B, delle commedie scollacciate, dei polizieschi, dei peplum, degli spaghetti western.
Fra i libri spopola, accanto agli amatissimi Roland Barthes e Jürgen Habermas, ogni sorta di testo e libello dell'editore Savelli: da Porci con le ali al celebre In caso di golpe. Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo, di guerriglia e di controguerriglia, con prefazione del compagno Vincenzo Calò. Sottotitolo: Quello che i golpisti sanno già e che ogni democratico dovrebbe sapere.
Il movimento insomma è impegnato soprattutto a raccontare se stesso, per se stesso. Questa passione per la "fotogenia" di sé non è narcisismo, ma un atto rivoluzionario, anzi la rivoluzione in sé. Cos'altro sono infatti tutte queste invenzioni e sperimentazioni linguistiche, le esibizioni della violenza, se non l'anticipazione di "altro" attraverso la distruzione del presente per mezzo del linguaggio che lo rende reale? In quegli anni, scrive Aldo Bonomi, "molti compagni sono arrivati alla convinzione che occuparsi di comunicazione contenesse già un progetto. Significava comunicare un immaginario, fare propaganda all'interno dei processi di trasformazione in atto".
Ecco una differenza enorme con il '68, che si era anch'esso molto piaciuto, ma che non si era mai guardato: preferiva farsi guardare. Voleva essere "capito" e "ammirato", non per com'era, tuttavia, ma per quello che faceva. Il '68 aveva la missione di cambiare il mondo ed era dunque impegnato a infiltrarsi nei media per cambiarli (in questo senso non è un caso che quell'anno abbia prodotto una massa enorme di giornalisti). Il '77, che non crede nelle istituzioni e dunque nel cambiamento, è invece impegnato soprattutto a raccontarsi, come atto di affermazione di indipendenza dalle convenzioni di cui le istituzioni rappresentano l'organizzazione finale.
Un movimento che si specchia e si autorappresenta: che nessuno dunque può davvero raccontare, tanto meno capire.
In questa identità c'è il seme della follia: quello che gli altri, cioè la stampa, dicono del movimento diventa la comparazione fra quello che si vede di sé nel proprio specchio e quello che vedono gli esterni. Il '77 compra ossessivamente i giornali per leggere delle proprie manifestazioni, guarda la Tv per vedersi sfilare, ma ogni volta è una delusione, una deformazione: dalla mediazione del giornalista, persino di quelli molto vicini, rimane sempre deluso. Lo specchio dei media, per il movimento, è sempre deformante. I giornalisti infatti danno giudizi, scelgono, scrivono, riorganizzano la realtà. Il movimento vuole invece una rappresentazione continua e diretta: non a caso l'unica forma di narrazione giornalistica in cui si riconosce e che accetta è la rubrica delle lettere di "Lotta continua", cioè una sorta di flusso di autocoscienza ininterrotto, senza che nessuno ci metta le mani. E, a ben vedere, un desiderio che anticipa Internet e i blog - un po' come l'altro strumento popolare di allora, la radio.
Del resto, potrebbe essere altrimenti? I giornali sono istituzioni, e quale istituzione potrebbe comprendere il movimento? I giornalisti dunque randellano (come "L'Unità"), aizzano (come il "Corriere"), denunciano (come il "Giornale Nuovo") e, soprattutto, spiano.
8 nov 2007
Il “signor rosmarino”. (Moresco saggista III)

"Caro Benedetto XVI, scusi il modo diretto con cui mi rivolgo a lei, senza i soliti appellativi che si usano in questi casi. Non è per mancanza di rispetto ma per un bisogno di verità e confidenza con la sua persona prima ancora che con la sua figura istituzionale. Lei di certo non mi conosce. Perciò mi presento. Io non sono né un ateo devoto né un devoto ateo. Sono solo uno scrittore che in un suo libro ha immaginato un papa che, appena eletto, dopo duemila anni, scioglie la Chiesa".
Questo è il “gesto estremo” che Moresco chiede a Benedetto. Lasciare che la Chiesa conosca la sua morte, per poter risorgere veramente. Questa è la prova. Questa è l’oltranza, questa la fede richiesta da Moresco. Fin troppo facile deridere quest’idea associandola a quella dei santoni che ti fanno crepare dicendoti che ti risveglierai su un pianeta riscaldato da Proxima centauri. Fin troppo facile far finta di non comprendere la portata simbolica “immanente” di tale proposta. Penso alle argomentazioni facilmente confutabili di Oddifreddi e alle più sottili argomentazioni di Ferraris sulla “reale presenza” e altre aporie della fede come consumo. Dietro o sotto questo secondo discorso, apparentemente formale, ci sta il vero problema di un cadavere trafugato o assunto, carne e ossa, nell’invisibile. Bene se non ci crediamo più, alla lettera, bisogna dirlo. La vita eterna non è la resurrezione e se si vuole davvero risorgere, testimoniare che la resurrezione è data bisogna avere il coraggio non di praticare un suicidio, ma di accettare, la morte. Un disperato gesto di fede: «Se anche la Chiesa si vuole salvare, si perderà nei tempi che ci aspettano». (sul concetto di accettazione vedi quanto detto nella parte II)
"Mi rendo conto di quanto sia ingenuo e abnorme quello che le sto chiedendo. E so bene che mi si potrà rispondere: nessun uomo può sciogliere la Chiesa, perché è stata istituita dal Figlio di Dio. Ma c'è bisogno di liberare tutta la spiazzante potenza resurrettiva del cristianesimo. Bisogna che si liberi dall'interno del suo vuoto una potenza nuova ancora sconosciuta, proporzionale a quanto ci sta succedendo. Che si liberi la potenza creativa e resurrettiva dell'umanità femminile che è imprigionata anche al suo interno. Che la Chiesa non rimanga bloccata in una sterile guerra di posizione tra le altre potenze secolari imperiali. […] La salvezza non ci può venire solo dalla politica, dall'economia e dalla tecnica. La sfida è estrema. Bisogna liberare una enorme forza latente che -forse- è imprigionata da qualche parte. Bisogna pensare l'impensato perché l'impensato è esattamente ciò che ci sta succedendo. L'idea più estremistica e grande del cristianesimo è quella della resurrezione. C'è bisogno di questo estremismo in questo passaggio di specie su questo pianeta sovrappopolato e stremato. Servirebbe un gesto estremo, impensabile, irradiante, compiuto da chi avrebbe la potenza esemplare per farlo".
L’idea heidegerriana “di procedere verso l’impensato che bisogna pensare”, ripetuta alla nausea dai tanti alfieri della reazione (che pensano e scrivono continuamente il già pensato e già detto) qui si carica di una luce “immanente” sconosciuta ai tanti che di questa celebre frase si sono impossessati. La portata vertiginosa delle parole di Moresco però eccede ulteriormente questo piano che ancora in qualche modo potrebbe definirsi critico e storico quando sfocia nell’idea del sogno come creazione. Creazione di una forma antropomorfa consustanziale al senso antropologico e umano della profezia come “incarnato” “in figura” ancor prima che “in narrazione”. Infatti anche la forma della lettera sparisce, sparisce l’interlocutore, sparisce l’emittente. Resta la visione.
"Ecco, io vorrei arrivare con i miei sogni fino ai sogni del Papa, entrare nel regno dove i sogni del Papa si uniscono al resto della massa elettrica e spirituale di tutti i sogni sognati. Forse, di tanto in tanto, bisbiglia qualcosa nel sonno, anche se nessuno la sente. O forse qualcuno sì, chi può dire… Forse, quando è tutto buio e silenzio nelle sue stanze, un signore alto si avvicina al suo letto, si siede sulla poltroncina lì a fianco. La guarda dormire, in silenzio, assorto. Ascolta le parole che le sfuggono dalle labbra mentre sogna. Chi sarà mai questo signore? Come si chiamerà? Ma sì, diamogli un nome, un nome dolce, gentile, chiamiamolo il signor Rosmarino, perché lascia dietro di sé un leggero profumo di rosmarino. È quello che avverte anche lei la mattina quando si sveglia, e magari lo scambia per qualche profumo liturgico emanato dai suoi abiti durante la notte. Il signor Rosmarino la guarda in silenzio, nella penombra, ascolta le sue parole sussurrate a fior di labbra nel sonno. Poi, alle prime luci dell'alba, così come era arrivato, senza che nessuno lo veda, si allontana".
Dire con la voce la visione, una figura del sogno che nulla, assolutamente nulla condivide con il surreale, è un progetto destinato a debordare i confini di ciò che si può intendere come “lettera aperta a” o “discorso critico a partire da…”: è un’idea e una pratica di creazione destinata a resistere al di là delle proponibilità o della reale possibilità che propone. Nel contemplare questo inesausto “fiorire” di figure emblematiche si prova lo stesso senso di spiazzamento profondo e imbarazzante che si può provare di fronte ad alcune lettere di Giordano Bruno o di Tommaso Campanella; quelle lettere che partono con un fine politico e critico ma sfondano in tutt’altro, in un invenzione unica, allegorica, illustrata, inusitata, di nuova potenza (invenzione poi tradita e perversa del mistero e dell’iniziazione di una tradizione risorgimentale e massonica, settaria). Moresco ripete di continuo la necessità di fronteggiare questa mutazione radicale, questo salto di specie in arrivo e insieme già arrivato; non a caso Bruno e Campanella attraversavano una sconvolgente mutazione epistemologica, e con le loro opere abnormi furono i testimoni, prima di Galileo, di tale profondo sconvolgimento. L’apparentemente umile, laico buon senso sperimentale dello scienziato appoggia sui furori dissennati e sulla dissimulata pazzia di uomini visionari, incapaci di prudenza, di pazzi che profetizzavano mutazioni poi occorse ma allora ragionevolmente imprevedibili; che mischiavano astrologia e magia con scienza naturale, fandonie e verità sensibili. Visoni aurorali, scomposte, partorite da carni abituate al supplizio, in condizioni impossibili. Concludendo, la prospettiva di una liberazione come pensiero e discorso in Moresco mi pare annullata dall’incarnazione. Da un signor Rosmarino qualsiasi, arbitrario, potentissimo e disarmato, che si prende tutto sulle spalle, come un re africano che pedala su una bicicletta da camera per tenere il mondo nella sua orbita: impensabile. Irragionevole come la volontà di un ciabattino calabrese che, dal fondo di una prigione, pretenda di comprendere e riformare il suo mondo, di parlare a papi e imperatore. Un tizio come Campanella che studiava la visione attraverso le anatomie dei bulbi, che fu capace di comprendere che la febbre non era una malattia ma la reazione fisiologica ad un male, che seppe illustrare l’eugenetica e i nessi ecologici tra piante, animali e ambiente; che profetizzò di vascelli capaci di navigare senza vento né remi, di telepatia, di apparati acustici capaci di captare suoni dagli spazi siderali. Un pazzo che fu un poeta straordinario, la cui oltranza riverbera nel Novecento con risultati tra loro molto diversi: la mistica di Rebora frammento lirico 68 (cfr. il sonetto Della Plebe di Campanella), la militanza di Leonetti ("La voce è quella di Campanella e / dei vociani con militanza moderna, / addolcita dei suoni di Bologna", La voce del Corvo) o l’Invenzione di Moresco di cui ho presentato un esempio.
2 nov 2007
Provincia morta. Un poeta di Albisola

Quest’autore mi piace non solo perché conosco e frequento i luoghi in cui e di cui scrisse, ma per il suo aver saputo essere infinitamente meno vistoso del suo concittadino Tullio Mazzotti (1899-1971) e per non avere avuto, in fondo, nemmeno la vanità di creare un livre. Barile negli anni Trenta come gran parte dei poeti della sua generazione ha letto Blake e ha avvertito
«la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore... non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell'intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Poche - se pure - anche a quelli che sono i più bravi. Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze. Facevo mie le parole, non più dimenticate, di Boine: “Bisogna lasciar correre l’acqua, sporcar meno carte, aspettare. Lascia, lascia sbollire, butta via! che le cose importanti son poche e le cose belle rade... non si è padroni che delle cose inutili e le essenziali si fanno da sé, ci violentano».
Quest’idea dell’opera essenziale che si fa da sé, o quasi a scapito dell’autore, “violentandolo”, viene direttamente dalla prefazione a Quasi sereno e mi pare molto importante. Coerente con queste intenzioni Barile costruisce i propri strumenti sintattici e verbali con lo scrupolo quasi didattico che Pasolini indicò in un “ostinata tensione” esercitata sulla lingua per realizzare «il miracolo della fusione... tra sensibilità soggettiva e presenza oggettiva del divino». Tuttavia etichettò Barile come esempio di un «cattolicesimo disperato ed estetizzante» emarginandolo in una zona periferica, tra il pascoliano-crepuscolare e l’ermetico, cui lo avrebbero condannato virtuosismo e indifferenza ai contenuti della storia, messa tra parentesi dalla sua esclusiva tensione alla «purezza». In realtà forse Pasolini non comprese che Barile demandava l’«enorme antefatto della storia» all’«idea di eterno » (come scrive Carlo Bo): un’idea, o piuttosto, un sentimento che egli verificava nello sbriciolarsi del quotidiano entro un’unica cornice privilegiata: la «piccola patria» ligure di Albisola Marina dalla quale non si staccò per l’intera esistenza; e anche per questo volontario isolamento egli poté apparire defilato dalla temperie culturale del ’9oo. In realtà Barile fu del proprio tempo testimone e protagonista (si pensi anche solo a «Circoli», la rivista da lui fondata assieme a Adriano Grande e sovvenzionata da Guglielmo Bianchi; vedi anche F. Contorbia, Lucia Rodocanachi. Le carte la vita, Società Editrice Fiorentina, 2006), ma lo fu nella misura discreta e congeniale alla finezza di sentimenti che lo portò a diventare punto di riferimento e di magistero per molti poeti. «Giudice segreto», lo ha definito sempre Bo in occasione della sua morte e, in effetti, tutto ciò che si faceva a Roma o a Firenze fra le due guerre aveva un’eco immediata nel «piccolo laboratorio» della sua casa. Inutile forse ricordare l’amicizia con il coetaneo Sbarbaro, nata sui banchi del liceo e durata una vita, e il fatto che Montale lo eleggesse a primo giudice dei “rottami” che avrebbero poi costituito il primitivo nucleo degli Ossi di seppia; meno noto forse il legame con Adriano Sansa (Pola 1940) cui scrisse la prefazione a Vigilia (Sabatelli Editore); sindaco di Genova dal 1993 al 1997 condirettore della rivista «Resine» - e autore di Affetti e indignazione (Scheiwiller) e Il dono dell’inquietudine (Il nuovo Melangolo).
Primasera
Accompagnarmi sottobraccio al primo
che passa!
Foresto: a me lo simulo fratello.
Mi sporgo a ogni speranza più leggera
d’incontri, mi sorprendo mentre piego
a spalle immaginate
il capo.
Ora sento da questo
che ogni giorno mi cresce desiderio
di udire voci di stringere mani
di fare insieme a chi trovo, chiunque trovo, la strada,
sento il mio cielo che scolora e presto
si annera.
Un’urgenza affettuosa mi preme.
Da stanche luci di greppi pe’l fitto
del bosco a gradi precipiti calo
trafitto da richiami
a piana terra.
La ripa erbosa mi sfugge, m’afferro
alla pungente carità dei rami.
29 ott 2007
tema in classe

La “pena esemplare” per l’arroganza, la sete di violenza, il fascismo esibito, l’uso arbitrario della forza, per la volontà di colpire innocenti; insomma, il risolutivo faccia a faccia con i reparti creati ad hoc come i Canterini Boys o i Ccir, i famigerati contingenti di carabinieri per gli interventi risolutivi, sono ancora là da venire. Già così il processo potrebbe costare allo Stato tra i 7 e gli 8 milioni di euro.
14 ott 2007
Letteratura Postcoloniale e della migrazione. Il caso Bahatt.

Tutto molto vero, o quasi. Nei paesi di lingua inglese sono venticinque anni che razza e genere si mettono sullo stesso piano vendendosi infatti un sacco di opere di non inglesi che scrivono in inglese e di non eterosessuali che scrivono della loro non eterosessualità. Ma la fornace vera, l’industria, è quella della critica che va a braccetto stavolta sia con gli scrittori, sia con il mercato editoriale. Da un po’ mi trovo a meditare su questioni e una splendida risposta ad alcune mie idee la trovo in Cancellazione di Parcivall Everett, romanzo che consiglio. Il fenomeno che questo romanzo tematizza con ironica grazia, avevo cercato di esprimerlo recensendo Il colore della solitudine, di Sujata Bhatt, poetessa indiana di espressione inglese (trad. Paola Splendore, Roma, Donzelli, 2005). Il pezzo, chiestomi dall’“Indice” non si confaceva forse alle esigenze della rivista e giustamente non fu allora pubblicato. Lo ripropongo ora in questa sede ritenendo che tale discorso vada stimolato, e non sopito.
Il poeta romantico in lingua gujarati Narmad (1833-1886) seppe rapidamente appropriarsi di alcuni tratti fondamentali dell’occidente (fondò, tra l’altro, «Dandiyo», un foglio sul modello dello «Spectator») e scrisse una celebre canzone ricordata dal Mahatma Gandhi nelle sue memorie che diceva: «Guardate come i forti inglesi dominano i piccoli indiani Siccome mangiano carne, sono alti cinque cubiti». Oggi fortunatamente, e ormai da una trentina d’anni l’ipernutrita cultura anglofona dall’alto dei suoi cinque cubiti ha cominciato a guardare con interesse alla cultura delle ex colonie ed in particolare agli scrittori di lingua inglese, come Sujata Bhatt, una poetessa quasi cinquantenne nata ad Ahmedabad da una famiglia bramina e cresciuta tra New Orleans, la città di Pune, in India e il Connecticut dove il padre è chiamato a dirigere un programma di ricerca all’università di Yale.
Formatasi nel cuore pulsante della teoria americana su un canone esemplarmente “occidentale” (Hardy, Yates, Eliot, Stevens, Bishop, Williams etc.) Sujata Bhatt ha tradotto la poesia Gujarati per la Penguin Anthology of Contemporary Indian Women Poets e in inglese («lingua d’elezione della scrittura poetica» e «unica vera patria») ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Brunizem, Manchester, The Carcanet Press, 1988, premiata con il prestigioso "Commonwealth Poetry Prize") cui hanno fatto seguito Monkey Shadows (1991) The Stinking Rose (1995) Augatora (2000) e The color of Solitude (tutte pubblicate dall’editore Carcanet e tutte ampiamente antologizzate nella scelta compiuta dalla curatrice italiana coadiuvata dall’autrice stessa). Determinanti per la sua formazione sono il contatto con un poeta di rilievo come Eleanor Wilner (1937) (presente nella prestigiosa Norton Anthology of Poetry) e la frequentazione di un Writers’ Workshop organizzato dall’università dell’Yowa dove incontrerà anche il suo futuro marito, un giornalista e scrittore di Brema. “La lingua come condizione d’esilio” e “la viva restituzione della corporeità e dell’eros in un’ottica femminile” connotata da esperienze usualmente private di rappresentazione (Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei seni / di una donna incinta / al quarto mese?”) sono indubbiamente una delle cifre dominanti della poesia della Bhatt che tuttavia ha il suo valore in quanto poesia pubblicata nell’idioma più parlato al mondo e impostata su presupposti culturali tutt’altro che “marginali”, almeno nel mondo anglofono.
Lo dimostra il fatto che il problema del multiculturalismo cominci a farsi udire anche in Italia, e per di più in un “genere” o meglio “in uno spazio di mercato”, relativamente angusto come quello della poesia. Ma la poesia multiculturale cantata in The Multicultural poem «La poesia multiculturale è una creatura, un essere il cui spirito respira come un’orchidea al sole ancora umida di pioggia» assomiglia tanto a quella “ruota lucidata da due scrosci di pioggia” da cui "così tanto dipendeva", ed è avvicinabile in primis allo stile di quel poeta radicalmente monoculturale, in perenne lotta con il chiassoso (e paradossalmente reazionario) cosmopolitismo poundiano, che fu William Carlos Williams. L’equivoco dei “margini” porta ad una sovrapposizione dell’immaginario estetico e sociale non sente da rischi. Già è difficile decidere se e come esportare un modello politico, peggio coltivare in vitro un’idea di un valore letterario “anatomico” e “di genere”, perché l’abbaglio “dei cinque cubiti”, come il faquir della tradizione araba, è sempre lì pronto a sbucare ad ogni svolta d’angolo.
10 ott 2007
Moresco saggista (2) il conflitto di un uomo pacifico.

Mi viene in mente quella battuta di Nazarin (1958) di Luis Buñuel: la storia di un giovane prete fuori del comune, che vive ospitando prostitute e, ogni volta che riceve delle elemosine le offre ad altri, comportandosi da puro tramite; non possiede nulla, rifiuta qualsiasi ruolo sociale, perfino il ruolo sociale del prete. A un certo punto qualcuno gli chiede: “Ma lei sfida la società, sfida le ingiurie, gli insulti del popolo, dei suoi parrocchiani?”. E lui risponde: “No, io non sfido proprio nulla. Io accetto le cose come sono”. È un personaggio stralunato e non lo dice con boria. Il valore del termine ‘accettazione’ di cui vorrei parlare è un po’ questo: di qualcosa che si contrappone a quel germe di odio, di competizione insito nella parola ‘sfida’.
Moresco accetta di parlare. Non si butta nella mischia per avere il primo posto sotto i riflettori e poi non dire più niente. Un amico mi faceva notare che nell’ultimo aggiornamento della canonica Storia della Letteratura Italiana di Cecchi Sapegno viene dato a Moresco il “giusto spazio” e mi dice “e allora che vuole ancora”. Moresco stesso lo ripete in un intervento al salone del libro e in diverse occasioni. “No, non mi basta”.
Il grande merito, la superconvenienza, per così dire citando Céline in Mea Culpa, che Antonio Moresco poteva portare ad un lettore ventitreenne in procinto di laurearsi in letteratura italiana era di aprire gli occhi su un conflitto culturale in atto, sordo e senza spigoli: lamette da barba affondate nel cotone. Per comprendere Il paese della merda e del galateo il rimando a Pasolini contro Calvino è d’obbligo. Dei due saggi feci una lettura contigua e di seguito ci furono le Lettere a nessuno pubblicate sempre con Boringhieri, dove lavorava Berardinelli come consulente editoriale. Erano il quadro di un paesaggio desolante e la descrizione di un passaggio storico in prima persona. L’euforia per Gli Esordi, l’esplosione dei Canti del Caos, la loro novità creativa attutirono il primo colpo di quei saggi, che, tuttavia, negli anni continuarono a parlare adunando tacitamente non veri e propri interlocutori ma effetti di risonanza che portano più o meno tutti ad una rotazione dell’asse critico del discorso e al riesame di alcuni valori: Calvino, Eco, in primis, ma anche un certo Magris e Del Giudice e poi ancora tanti autori... Sintomatico leggere le diverse recensioni di Pent alla prima e alla seconda parte dei Canti del caos. Nella prima diceva in sostanza che l’autore se la canta e se la suona; nella seconda lodava la serietà e la coerenza del progetto o qualcosa di simile. In ogni caso io nell’accusa di Moresco ci vedevo anche qualcosa della mia generazione; ci vedevo tanta narrativa einaudi (Galiazzo e Bajani ad es.); ci vedevo anche una critica a certi miei racconti usciti sul «Maltese». Aveva colto nel segno, e aveva ragione. Certo prima di lui l’avevano capito altri: Fortini ad esempio aveva notato che Calvino, “l’ottimista all’ombra del potere”, tendeva a ridurre i conflitti e gli antagonismi storico-sociali a mero sistema di conflitti, ma Moresco mi aveva fatto capire in modo concreto quale era il limite di quella idea di letteratura. Me lo aveva fatto toccare con mano con due opere potenti e senza paragoni nel mercato editoriale italiano che si presentavano come una risposta all’impasse denunciata. Molti altri coetanei allora riconobbero la potenza di quella scrittura, la sua novità e anche negli anni di Dottorato, le persone cui parlavo della sua opera si facevano interessate, attente, oppure polemiche, comunque vive. Cosa rara nei corridoi dei dipartimenti. Quando feci conoscere la sua opera ad un amico che insegnava letteratura italiana all’università di Barcellona, quasi immediatamente decise di farla tradurre in spagnolo. Da allora Antonio si ricorda di me come il “motore immobile” e la cosa mi fa spesso sorridere. Queste sono le ragioni personali che mi hanno spinto a cominciare questo saggio e a scrivere questo preambolo. Dalla prossima puntata, i testi nel dettaglio.
9 ott 2007
Antonio Moresco saggista (parte I)

Per arrivare a rifondare la condizione epistemologica il saggio (scusate i paroloni) bisogna però non solo rifondare l’atto di lettura, azione aleatoria e non comprovabile, ma aggirare il canone, espanderlo evolvendo, cercando di evolvere la società e la civiltà italiana. Questo è il Moresco saggista che affronta il peso del mondo; quello che riconsegna al campo letterario italiano il mandato imperativo della grandezza, quello che piglia i soldi di Silvio per consegnare lo Zibaldone al bacino linguistico dominante al momento, quello che ci fa scoprire che Dante in Giappone era una donna, quello che combatte per i Rom e intanto ci porta a ripercorre strade impensabili, da Bilenchi a Walser, da Louis-Auguste Blanqui al Il principe Genji. Moresco odia il termine “letteratura”, penso che odi anche il termine “intellettuale” e forse anche “storia” e chissà quanti altri patetici tentativi linguistici di limitare qualcosa che non deve stare chiuso in scatole predigerite e precostiutuite. Eppure se un critico si mettesse a scrivere seguendo la sua lingua e i suoi strumenti non farebbe un buon servizio, né all’autore, né ai lettori né alla critica letteraria nel cui scaffale in fin dei conti finirà il libro. Per questo dovendo scrivere qualcosa su Moresco non mi metterò a lavorare con dei “trasferelli stilistici” ma cercherò di indagare “la posizione storica dell’intellettuale e saggista Moresco nel Campo della letteratura italiana”. Quasi tutte le parole potrebbero essere cassate come castranti ma le uso apposta. Ho sempre trovato poco giustificato e un po’ snob il desiderio di Montale di “non essere conficcato nella storia” soprattutto dopo che hai lavorato tanto, davanti e di dietro, per essere il poeta-giornalista del «Corriere»; per questo pur ritenendo fondamentale “l’uscita dallo stato di minorità” di cui parla Antonio, il servizio che mi sentirei di rendere (anche a chi quella novità non volesse o non potesse intendere) sarebbe spiegare il nuovo con il linguaggio vecchio. Pigrizia intellettuale? Omogeneizzati? Algidi companion da future adozioni da curriculum e nient’altro? Forse. Se qualcosa ho imparato, mi esporrò anch’io a qualche rischio. Perché ci sono ancora le cattive digestioni, le piccole mediocrità, la pigrizia. Partirei con un confronto: ad esempio tra la forma saggistica di Amore Lontano di Sebastiano Vassalli e Lo Sbrego… (continua)
Belpoliti e il Settanta che manca

6 ott 2007
Una fonte per la botte...


Oggi parlerò di Jonathan Swift, e il mio racconto comincia quando facevo l'università e mi è venuta la passione per Swift, ma una passione così forte che volevo tradurlo tutto. Avevo poco più di vent'anni, e mi sono messo a tradurre per conto mio quella che forse è la sua opera più stupefacente, intitolata Tale of a Tub, che fino ad allora non era mai stata tradotta in italiano. In realtà dopo sono andato avanti per oltre vent’anni a rifare quella traduzione, che finalmente è giunta in porto ed è stata pubblicata col titolo Favola della botte. Finita l’università ho avuto una borsa di studio che mi ha permesso di passare due anni a Londra, a studiare nella biblioteca del British Museum, e lì quello che volevo studiare e tradurre erano I viaggi di Gulliver, l’opera a cui è legata la fama universale di Swift. Ma anche questa traduzione si è arenata, ed è riuscita a vedere la luce solo due anni fa, soprattutto per via di lunghe rimuginazioni sull'autore che non riuscivano a trovare una conclusione. In breve, tanta è stata la mia passione per Swift, altrettanto forte è sempre stata la mia sensazione di non riuscire ad afferrarlo bene. Più precisamente dirò che, anche se letti e riletti per anni, i suoi discorsi restano elusivi e sfuggenti rispetto ai giudizi e le opinioni che ce ne facciamo…
24 set 2007
Es war einmal… Noventa - Fortini

Es war einmal… di Giacomo Noventa
Es war einmal ein Dichter,
Dessen namen keiner ehrt:
Von Menschen und von Dichtern
Zeigen Namen nicht den Wert.
Nach dem Sieg wurde er gerufen
Zum König vom deutschen Land.
Den Krieg wurde er berufen
Zu rühmen in manchem Band.
“König”, sagte nun der Dichter,
“Gott schütze dir deinen Sieg.
Jeder Deutsche sei dein Dichter,
Mir fiel mein Freund in dem Krieg.
Er war in dem Dorf geboren.
Wo auch ich geboren bin.
Und er ist für dich gestorben,
Lasse mich weinen um him!”
Der König lässt ihn nicht weinen,
(Kaiser kennen nicht diese Not)
“Die heute im Deutschland weinen,
Die begegnen morgen den Tod!”
So starb einmal ein Dichter,
Dessen Namen keiner ehrt:
Von königen und von Dichtern
Zeigt dieses Maerchen der Wert.
C’era una volta un poeta (trad. di F. Fortini)
C’era una volta un poeta,
Quel suo nome onore non ha;
ma né di uomini né di poeti
dicono i nomi la verità.
Quando vinta ebbe la guerra
il re dei tedeschi lo chiamò
ed in più tomi quella sua guerra
di cantare gli comandò.
“Sire, ti salvi Dio la vittoria,
(rispose il poeta così)
canti ogni tedesco la tua gloria…
A me in guerra un amico morì.
Il paese dove era nato
ha veduto anche nascere me.
Lasciami dunque piangerlo,
ora che è morto per te”.
Il re non vuole che pianga
(quel bisogno, chi regna non lo sa):
“Chiunque in Germania oggi piange,
domani morirà”.
Così una volta è morto un poeta.
Quel suo nome onore non ha;
ma dice di re e di poeti
questa favola la verità.
20 set 2007
Recensire un editoriale tv. prosa lirica

Periferia Pavese International suicide

E d’altronde poi... Cinese e Hindi insieme fanno 1.100 milioni di parlanti. Le lingue occidentale più diffuse, Inglese e spagnolo, insieme neanche 700. L’ Arabo lo parlano 220 milioni, il Bengali, 190 milioni; il Portoghese, circa 180 milioni, Francese, 180 milioni, Russo, 170 milioni, Giapponese, 127, Tedesco, 100, Coreano, 78, Vietnamita, e Italiano 70 milioni, Polacco, quasi 50 milioni.
Sento spesso dire in giro che l’Italia è un paese minore. “Minore, minore… minore per forza” dico io. Le stime pubblicate da «Veranstaltungsskript von Christian Lehmann» e da «Ethnologue» nel 2005 parlano chiaro. Demograficamente parlando la struttura dell’immaginario dovrebbe conformarsi nel futuro secondo tutt’altri canoni rispetto a quelli cui siamo abituati. Le masse spaventano la reazione,: bisogna consolidare il canone; ma poi avvedendosi al solito che la forma della replica è la farsa, tutti ben felici di transitare latinità, dal formaggio ai grattaceli. La versione soft, la “meraviglia” e il “possesso” e poi, passo passo verso un auspicabile “negoziato”, tanto per rifarsi a tre termini chiave di Stephen Greenblatt.
Immaginiamo di comparare, con metodi empirici, il campo letterario dei tre ultimi paesi della lista di cui sopra, il Vietnam, la Polonia, l’Italia. Una sorta di dialogo umanistico in forma di “cimelio”. Tre intellettuali che discutono i valori per il nuovo millennio e della storia loro e dei loro paesi negli ultimi trent’anni, mettendosi in gioco in maniera personale, presentandosi e parlando dal crollo delle ideologie, delle utopie, della rivoluzione francese, dello stato costituzionale, del dialogo interreligioso, dei valori estetici, del Novecento, della morale sessuale, di quello che preferiscono insomma, così, a braccio, magari in forma breve, quasi aforistica… Ne verrebbe fuori un libro se non altro curioso per i tre rispettivi bacini.
E splendido bersaglio per i critici dei rispettivi paesi attratti da un boccone di così facile lettura: è nel contratto dover spiegare ad “altri” che non sanno o in ogni caso e per forza di cose sanno meno. Una bella tentazione per ogni scrittore di quel genere di fiction che è la saggistica. […] Andando più in giù nella lista di «Ethnologue», ai piani più bassi, tutte le lingue dell’Africa, il continente anche linguisticamente più sfracellato. Penso in particolare lo Hausa, che presenta una letteratura davvero interessante. Ma quando troverò il tempo di leggere capolavori lontani e sconosciuti: chi pubblicherà ( o Ha pubblicato) Muhammadu Garzo e Abubakar Imam; Abubakar Tafawa Balewa e Zaynab Alkali. O i poemi di Okot p’Bitek e di Sa’adu Zungur? E soprattutto, cosa più importante, saprò ascoltare? Riflettere su quanto in fondo l’Italia si senta “meglio” di Vietnam e Polonia. I bookmaker sarebbero tutti a favore dei campioni del mondo, dello stato più ricco, ma quante volte siamo capitolati?
Riguardo alla provincia universale, alla Polonia, e alla mia Spagna di «Camp de L’arpa» riporto infine da Imperfetta Ellisse una poesia di Jaroslav Mikolajewski, poeta nato a Varsavia nel 1960 tradotta dal polacco da Lorenzo Pompeo ed Eliza Piotrowska. Il titolo è “Cesare Pavese” e ovviamente tratta dello scrittore nato all’inizio di settembre novantanove anni fa a Santo stefano Belbo. Niente pettegolezzi, ha detto l’ultima volta. E ancora per un anno gli va bene.
Cesare Pavese”
Collina, vigne e la densa polvere della strada
Che sempre più dura si scioglie nella nebbia del mattino.
Un uomo con gli occhiali si sdraia sul ciglio
sotto una vite morta e rimembra
il paesaggio nascosto dietro le umide nubi. Alza la testa
soltanto quando i germogli secchi che gli solleticano la nuca
sono caldi e il sole ha spazzato via la nebbia dalla strada e dalle colline.
Tutto è rimasto uguale, solo la luce è diversa
ricorda un ragazzo di quella stessa terra
osservava gli animali e la gente sui campi.
Respirando il profumo delle foglie fumanti l’uomo cammina
verso la città dietro la collina. Quelli attorno ai quali passa,
non si distraggono dal lavoro, non volgono lo sguardo
dalla strada. Neanche le donne fanno caso al cielo
e scoprono i fianchi al sole, come grappoli d’uva
assorbono il pomeriggio.
Quando in periferia
sente sotto i piedi l’asfalto duro, l’uomo
pensa a se stesso come un mare, che non genera niente,
nel quale il futuro è già morto e sepolto.
3 set 2007
I premi: polemiche bilanci. Le scarpe gialle di Fruttero e Claudel

Venendo infine al tanto patito Viareggio, Filippo Tuena l'ha spuntata sul forse più blasonato (e a me sempre simpatico) Ermanno Cavazzoni. Il romanzo di Tuena non l'ho letto ma conosco le sue poesie. Sull'intelligentissimo e meritorio sito "Nonleggere" potete ascoltarlo mentre ne legge. Vi invito a notare il nome dell'editore che pubblica i Quattro Notturni (La collana "Le Remore" di Giuseppe Aletti) e notare la solita sproporzione tra due linguaggi, uno che è sul mercato, e uno no. Mi stupisce poi vedere che tanta parte di quella scrittura che vende così tanto è fatta da persone che, da subito, di primo acchito, d'isitnto hanno praticato quella scrittura che vende così niente. Gli esempi si sprecano, dagli anni di Pirandello a quelli di Baudino, Fois e Paola Mastrocola, tanto per citare i primi tre nomi che mi vengono in mente. Cosa diceva Croce dello scrivere poesia dopo in vent'anni? Se aveva ragione lui lo si dica a chiare lettere.
2 set 2007
Ancora al Sud: il giovin Saviano e gli altri.

Nel numero del 23 agosto parla della sua ossessione per la “questione meridionale” e cita Salvemini, Giustino Fortunato e Ernesto Rossi. Pensatori che del sud avevano capito tutto. Tra i politici cita Berinotti come unico politico recatosi a Casal del Principe e ricorda con rispetto l’Msi legalitario di Almirante. Come a dire: salviamo il radicalismo della base, la spinta che muove a compiere l’atto, accettando le gioie (il successo) e i dolori (la scorta, e la paura) che ne conseguono. Per quanto mi riguarda ammiro Saviano e credo che lui sia il primo scrittore post-coloniale italiano. Non è una boutade: chi legga l’articolo del colloquio con Gianluca di Feo può sentirlo, anche nel suo modo di riproporre la questione, importantissima.
La gloria, per gli antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della fama, cominciava a prendere aspetti paurosi. Un orrido mostro che possiede tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. Saviano suppongo potrebbe affrontare e meditare ogni giorno la questione. Il suo “differente posizionamento” non è da cercarsi nei riferimenti a Pamuk, Rushdie, ma nel fatto quasi unico nella letteratura scritta in Italia negli ultimi anni, non solo di un intellettuale “protetto”, in pericolo per quello che ha detto, ma anche di uno scrittore liberato della scrittura. E anche per questo Saviano lo definisco post-coloniale. Mutatis mutandis tale liberazione era toccata anche a Gavino Ledda, che quando andavo a scuola si faceva leggere alle medie o al primi anni delle scuole superiori; lo stesso sta succedendo a Saviano, già "adottato" in molte scuole. Saviano dice che non è la scrittura che libera lo scrittore. No. È il lettore che rende libero lo scrittore. Il lettori liberano, distruggono la censura, l’omertà. Chissà se anche lui dopo il successo ed un possibile film cercherà l’intransigenza incomunicativa e bucata di un Aurum Tellus? Non credo, in ogni caso, si vedrà. La storia rilassa e Pirandello aveva parlato più di una volta del «piacere della storia». «Nulla di più riposante della storia, signori» aveva esclamato un suo personaggio. «Tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi. Nulla v’è di certo. Mentre nella storia tutto è determinato, tutto è stabilito.» E ogni effetto segue obbediente alla sua causa con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale ecc. ecc. Rilassa meno, la storia, se qualcuno ha l’ansia di fartici passare.